domenica 11 settembre 2005

Pensieri fluttuanti descrivono quattro mesi esaltanti



Racconti sensazionali


A cura di
Nicola Momentè



gabbianoipotetico@hotmail.com
ITALIA
Via G. Toniolo, 7, 30027 San Donà di Piave
Venezia
Italia
Casa: +39 042154680

NICARAGUA
Reparto St.Juan, Calle Carmen 523, de la unival media quadra al Sur
Managua
Nicaragua
Ufficio: +505 2774676
Cell: +505 6437747

PRIME RIFLESSIONI DI UNA MENTE COLPITA
Amici cari, eccomi qui già di buon mattino, a scrivervi le prime riflessioni dopo questo antipasto d’India offertomi da Jaipur. Il calore che affumica le mia membra è direttamente proporzionale al nuvolo di situazioni, esseri animati e non, che pullulano le strade. Se a ciò aggiungiamo pure i 40-47 gradi centigradi che giornalmente cuociono la città, il gioco e' fatto. Mi ritrovo a vivere in questo stato di continuo annebbiamento che non favorisce certo l'osservazione partecipata, comunque fine ultimo indiscusso del mio peregrinare le strade, gli istanti e le vite.
Voglio dedicare un paio di righe alla reggia in cui vivo, perché di reggia si tratta: dormo su due materassi appoggiati l’uno sull’altro, ho l’elettricità e pure un rumorosissimo e piuttosto instabile ventilatore!! Molto più di quanto sperassi, probabilmente troppo. Ciò che mi manda più in crisi, però, è la domestica, probabilmente una dalit, fuori casta, che cucina per noi e ci lava le vesti.. Voi mi chiederete dove sta il problema, ringrazia iddio di essere capitato in cotanto agio! Personalmente preferirei lavarmi le cose da solo, questa cosa dell’essere servito mi resta proprio sullo stomaco, sembra di essere in un albergo o similaris. Approcciando la questione da un altro lato, però, mi rendo conto che è ancora più sciocco mettere in discussione l’organizzazione familiare delineatasi nei secoli. E, oltretutto, sto spendendo molto più del previsto, quindi, il fatto che cucinino risulta essere anche un risparmio economico non indifferente per le mie martoriate finanze. Abito in una comune internazionale, con un sacco di persone, interessanti e meno. E’ un po’ una barzelletta, vediamo: c’è una olandese ANKE, un paio di olandesi JOB e KOEN, con l’ultimo condivido una specie d’appartamento, un'italiana torinese CHIARA, un AUSTRALIANO james, una neozelandese SARAH, una franco tunisina HEDIA, un estone ANDRES, una austriaca GIULIA. Se fossimo fricchettoni e fumassimo sarebbe una perfetta realtà da centro socio culturale occupato. In realtà, paghiamo profumatamente e siamo serviti: quindi, per quanto alternativi e con le visioni si disparate, ma tutte finalizzate ad un mondo diverso, siamo i primi a continuare a farlo girare nel senso errato, che già da troppo tempo sta percorrendo. Ho iniziato a conoscere i ragazzi, personalità molto diverse, alcune molto poco avvezze al sistema India, in particolare tra coloro che lavorano come management TN, piuttosto che i development TN, per natura più avvezzi alla tolleranza e al diverso.
Spazio ad un paio di considerazioni su tutte le banalità che accompagnano la mente comune alla parola India:
Sì, le vacche sono per strada e la gente fa gli incidenti per schivarle.
Sì, i bambini di strada ci sono, ma non cosi tanti come m'aspettavo, essendo Jaipur una città comparativamente ricca rispetto agli standard indiani -- riflessione personale: il sistema capitalista, a noi caro, una volta legato al sistema gerarchico, innato nella società indiana, sta creando un abisso ancora maggiore che da noi tra ricchi, middle class e poveri; così come notevole è la differenza tra una sempre più cospicua e sostanzialmente agiata middle class e i poveri; per non parlare poi dei nullatenenti.
Insomma, c'è la gente “bene” che il sabato spende 20 euro per alcolizzarsi nei locali troppo cool e le persone, la grande maggioranza, che non arriverà a vedere la stessa cifra in una vita intera, magari in un paio di reincarnazioni. E non ditemi che è un bene che alcuni ci siano arrivati, e per gli altri è solo questione di tempo. Se abbiamo studiato un pò di economia, o letto mezzo libro, sappiamo bene che il sistema economico tanto amato non è poi cosi funzionante, basta guardarci in casa, grandi città in primis.
Che fare dunque? Eccoci qui, l’acclamato terzo settore, collegamento tra finanza e popolo:
“siorri e siorre” arrivano le ong!
Pro e contro, come in tutte le cose. Alcuni ragazzi non sono contenti dell'esperienza che stanno vivendo con le ong perché sostengono di poter fornire un maggior contributo. Ma si sa, o forse non lo sapevano, è l’India: tutto, ma proprio tutto, e' a rilento, di conseguenza, per presentare un proprio progetto bisogna che questo sia approvato da tutta la gerarchia, ultimo il grande capo dell'ong. Pazienza ce ne vuole, e molta.
Scrivo a braccio, non ho un filo conduttore, faccio scivolare l’inchiostro in questa carta riciclata così grigia, lontana dai colori indiani, ma che acquista colore proprio grazie alle parole che descrivono questi luoghi. Un pò di irrazionalità suvvia.
Dicevo pazienza si.. come quella che ho io, visto che era previsto iniziassi sabato, oggi e' martedì e sono in questo terrazzo assolato, invece che nella mia agognata ong. Dicono domani, forse domani, forse.. Intanto m’avvicino alla meditazione, forse qui tanto sviluppata anche per gli innumerevoli tempi morti da riempire. Quindi, grande spazio alla riflessione. Pazienza, ohm ohm ohm. Pazienza come quella che mi ci è voluta ieri, quando ho speso mezzora per contrattare il prezzo del rickshaw che mi portasse a casa. Per un prezzo onesto sulle 30 rupie me ne sono state richieste 80!! In quanto straniero, bianco occidentale oltretutto sei, indiscriminatamente, miliardario. Dunque, anche se ti fai spennare per un taxi, ai loro occhi non ti cambia niente. Vagli a spiegare che vieni pagato 1000 rupie al mese, corrispondenti ad un terzo dell’affitto che paghi. Cercano spesso di arrotondare abbondantemente al rialzo, tu turista fricchettone nella loro patria, ti autotasso e amici come prima. Alla fine ho pagato 55 rupie imprecando pesantemente, e lasciando di stucco per la mia risentita reazione i giovani tassinari. Al mio arrivo, in preda ad un attacco di calore, ho tagliato le basette, e ho pure pensato di tagliare i capelli, ripensandoci per altro velocemente. Va detto, però che, oggettivamente, si muore da caldo. Se passi tre ore a gironzolare sei sfinito.



I GIOVANI, GLI SPAZI RIVISITATI, LA CITTA’ ROSA
Uomini e donne appartenenti al mondo qui tanto sognato! Un’altra settimana è trascorsa in questo pazzo pianeta che è l’India, in una delle sue città più rappresentative che è Jaipur. La città è interessante, la sua zona più antica è chiamata pink city, città rosa, proprio per il colore degli edifici, tutti rosa. In realtà molto più salmone, ma insomma, è l’idea che conta, no? Questa zona è tutta da visitare, da respirare. Piena zeppa di persone, mondi a sé e negozietti, minuti come i loro padroni, ma presenti in numero consistente; un bazar, enorme, di cui non si vede la fine per un tempo indefinito. Non esistono spazi vuoti nel centro della città. Lo spazio è letteralmente riempito di cose e persone, strade comprese. Chi non ha la fortuna di avere un tetto, dorme dove capita; nella maggior parte dei casi questo significa ai bordi delle strade, che non mi azzarderei a chiamare marciapiedi. Se a questo si aggiunge il modo di “guidare” che da queste parti è estremamente pericoloso, si può facilmente comprendere quanto l’idea stessa di vita sia così diversa, più leggera, meno appesantita dalla paura della morte, che qui può giungere in ogni momento, senza esagerati drammi. Nel condurre un veicolo tutto è fantasia. Le strade di Sicilia che tanto avevano impressionato per la loro anarchia, a confronto sembrano zone pedonali di una tranquilla cittadella del nordest italiano, come la cara Sandonà. Le strade, a due o tre corsie, sono caratterizzate da un traffico capillare, con sorpassi e contro sorpassi, un nuvolo di moto, motorini (la moto e’ preferita alla macchina per il traffico intenso) vacche, cammelli, cavalli e, a volte, elefanti. Tutti nei cinque metri della corsia, ovviamente in ordine sparso. Se ci aggiungiamo l’inutilizzo degli specchietti, a volte addirittura rigirati verso l’interno nelle moto, guidare emerge come l’atto e fatto più pericoloso della giornata media dell’abitante di Jaipur. Allo stesso tempo, non è tutto lasciato all’anarchia; una sorta di sistematico ordine si è fatto spazio. Funziona che tutti per sorpassare suonano il clacson, visto che le corsie non esistono e non usano gli specchietti. Ci si mette dietro ad un camion (che, fra l’altro, ha dipinto nel retro HORN PLEASE – appunto suonate se volete passare) e si inizia a suonare fino a che questo sente e si sposta; nel frattempo, almeno una decina di moto ti hanno affiancato, quindi devi riuscire ad infilarti nello spazio esatto messo a tua disposizione dalla situazione. Un’esperienza. Qui sì prendere la patente deve essere un’avventura. Tra clacson e tono di voce piuttosto elevato, continue discussioni e semplici chiacchiere, il silenzio è una chimera che non si raggiunge nemmeno in camera, perché rotto, fortunatamente, dal ventilatore. Una volta nei villaggi, il silenzio risulterà scioccante, a suo modo assordante.
Il ventilatore è essenziale durante le lunghe nottate per non lasciarsi vincere dal torrido caldo e dalla disidratazione. Il lenzuolo andrebbe cambiato ogni giorno, ma in breve si inizia ad apprezzare quel sudaticcio che avvolge le membra stanche al termine della giornata. Domenica, insieme ad una numerosa combriccola, sono andato appena fuori Jaipur: precisamente a Galca, luogo in cui si raccolgono sei o sette templi indù, e dove sono presenti delle piscine la cui acqua tende al verde scuro, ma in cui, sistematicamente, ci si lava per purificarsi.
Sono stato benedetto da Shiva, Krishna e Rama: se mi accadrà qualcosa sono veramente sfortunato o, come direbbero qui, la volontà di Dio è stata più forte della benedizione. Essere benedetti dai sacerdoti con il segno tra gli occhi è stata, in ogni caso, un’esperienza forte; loro cantavano le loro canzoni in indi o in chissà quale dialetto rajastano, con gli occhi persi in qualche dove nemmeno troppo lontano. Tutto ciò sempre guardandoti intensamente, penetrandoti quest’anima occidentale ormai talmente secolarizzata da essere poco propensa a confrontarsi con il sacro. Sì, piuttosto forte.
Amici indiani ci riaccompagnano a casa in un’enorme jeep dove troviamo posto in dieci. Nel tragitto una vacca, probabilmente in calore, ha ben pensato di attraversare la strada. Immediata inchiodata da 90 km/h a 0 in circa due secondi, che ci ha fatto mischiare un po’ le posizioni all’interno del mezzo, visto che ci siamo ritrovati uno sopra l’altro. La vacca, per altro, ci guardava pure stizzita, avendo tutte le sue ragioni: lei è la sacra tra gli animali protagonisti della vicenda, doveroso, dunque, mostrargli rispetto. Bella questione quella degli animali sacri.
Un altro esempio di unicità, per non dire contraddizione. Ieri e’ venuto il dott. Mohamman Singh, primo ministro indiano, ad inaugurare la prima autostrada a tre corsie d’India, proprio a Jaipur. Inevitabile retorica politica, specialmente sulla crescita economica dell’India. Ma insomma, pure lui con la mortadella sugli occhi, altro che grande economista. In questo paese si dà enorme spazio ad investimenti militari, ricerche atomiche, aerospaziali, grandi opere. Credo che la classe politica viva sull’ignoranza, nel senso di mancata educazione, della maggioranza della popolazione. Il popolo non si rende conto di quanta disparità c’è. Si muore per strada, si “vive” tutta una vita per strada; in molte famiglie povere le bambine a 12 anni si prostituiscono, senza rendersene nemmeno conto, non avendo mai visto alternativa alcuna, né avendo mai letto niente.
Sia ben chiaro che questo paese, che già amo, ha delle peculiarità uniche, meravigliose, che lo rendono fonte di ammirazione e di studio per chi, come me, fa della comprensione delle culture la base del suo agire quotidiano.
La gente: le persone sorridono, sono gentili, certo cercano di fregarti un pò, ma fa parte del sistema in quanto tu estraneo. Tutti ti guardano come fossi un alieno, e in qui sono fortunato ad essere uomo perché le ragazze vengono veramente squadrate per interminabili secondi. Molti, però, si fermano per sapere il tuo nome, da dove vieni, da quanto sei in India e quanto ti piace, se tutto è a posto, se ti serve qualcosa. I ragazzi indiani di AIESEC meritano un capitolo a parte: è semplice parlarci, il loro modello è l’America. Punto. Le conversazioni, quindi, si basano su questo attore qui o quel sandwich lì; hanno degli spessi paraocchi, nel senso che non riescono a sviluppare capacità critica verso un paese tanto controverso quale gli Stati Uniti. E tutto ciò nonostante tutti abbiano studiato, senza però riuscire a farsi un’idea sufficientemente ampia di come gira il mondo. Sono sempre più convinto che lo studio critico, la lettura, la ricerca, non siano più di moda. Insomma quando si domanda ad un giovane AIESEC di Jaipur che voglia fare, tutti rispondono quanto vogliano assomigliare a questo attore qui, piuttosto che fare i miliardi come quel manager lì; tutto perché, così facendo, sarebbero considerati cool, Shiva aiutali!!
Avere questa maglietta qui, quel jeans lì, mi pare di essere al Guernica, noto locale della Sandonà bene, dove se non si impiega almeno mezzora per prepararsi prima di uscire non si è ammessi. Tu provi a dargli il tuo punto di vista sul fatto che ci sono altre cose nella vita, parole nel vento.
La tv è il miglior governo del mondo, raggiunge sempre più i suoi obiettivi programmatici di rincitrullire l’ascoltatore. E allora, eccoci qui, tutti sempre più uguali e banali.
Il lavoro, finalmente incominciato, è per il momento gratificante. Mi occupo di HIV-AIDS: sto portando avanti una ricerca sui progetti di HIV awareness già avviati in India ed in Rajasthan in particolare. Il mio fine è di scrivere un proposal affinché la ong dove lavoro, CECOEDECON, metta in opera un programma di HIV awareness in alcuni villaggi intorno a Jaipur. Il tutto rispettando ed utilizzando la cultura locale affinché le lezioni siano recepite, e rendendo il tutto economicamente sostenibile nel tempo.
L’india mi appare bianca e nera nell’uomo, pura nella preghiera, sozza nell’infezione che l’occidente ha iniettato in questa gente.
E’ arcobaleno nella donna: madre, donna, lavoratrice e guida.
I sapori sono parte della vita, stare in cucina mentre vengono cotte le verdure è un’esperienza unica, fragranze intense dovute alle mille spezie che il mio stomaco non ha ancora completamente fatto proprie (ad intendere gli effetti). Passeggiare per strada sa di polvere, di inquinamento da motore, di sudore, di innocenza, sa di “hallo, uer u from?ah italic, uer is itali? Iurop?”
Eh si.. siamo piccoli ma riusciamo a complicarci un sacco la vita lo stesso.


UDAIPUR
Voglio incominciare a buttar giù qualche altro pensiero riproponendo una riga che l’amico Gio mi ha scritto nelle sue sempre essenziali e-mail:
"Finivi nella posta indesiderata. Non chiedermi perché. Credo l'antispam."
Direi che e' una buona metafora del mio andare, di dove le voci fuori dal coro vengono naturalmente indirizzate, affinché l’ordine sistemico, tanto faticosamente costruito, non venga messo in discussione, affinché qualcuno non si accorga che, forse, la nostra via al benessere non è né l’unica, né, tanto meno, la migliore. Io, finché me lo permettono, persevero nell’iniettarvi tarli nel cervello, o almeno nella posta elettronica.
Ho festeggiato i miei primi 25 anni, che, mi rendo conto, inizino ad essere un certo periodo storico. Dobbiamo ritenerci fortunati, ne sono successe di cose in questi cinque lustri, di certo non ci siamo annoiati. Grazie per gli auguri, come regalo vi racconto le giornate ad Udaipur e a Mont Abu.
Incominciamo dalla prima, città deliziosamente interessante, incastonata su una collina come un paesello siciliano, con le stesse dimensioni, ma con 400mila abitanti.
E' stato rilassante passeggiarci per i due fugaci giorni in cui l’abbiamo respirata. E’ decisamente a misura d’uomo; il centro storico è chiuso al traffico e offre uno splendido city palace da visitare, oltre ad uno sviluppatissimo artigianato locale e ad un centro culturale che regalerà uno spettacolo di danze tradizionali indimenticabile. Altra situazione che ricorderò di questa gita fuori porta nella città bianca, così è chiamata Udaipur, è la sera in cui ho scoperto lo SPECIAL LASSI. Vengo in india a fare la mia esperienza di lavoratore sociale, in piena ricerca spirituale, e finisco in confusione allucinogena dovuta appunto alle sostanze presenti in questo Lassi, per altro legalissimo.
Lo Special Lassi e' un normalissimo Lassi (yogurt, latte e zucchero) a cui, però, vengono aggiunti una certa quantità di pezzettoni, non di frutta però, ma di una erba verde che si rivelerà essere marijuana, legalissima in questo contesto in quanto usata come offerta agli dei da parte dei sacerdoti. Berne un bicchiere è sufficiente a passare una intera notte allucinato. Ed un bicchiere è ciò che consumo, essendomi questo stato gentilmente offerto per la cena del mio compleanno da James l’australiano e Andres l’estone. Hedia la franco algerina ed il mio compagno di stanza e di lavoro Koen mi hanno, invece, regalato un Vishnu in pietra molto bello, che porto sempre con me da allora. Dopo un paio d’ore la fattanza raggiunge il suo apice, facendoci spendere eternità ridendo per niente, fino a che ci siamo ritrovati all'una del mattino, orario già piuttosto proibitivo per gli hindu, a gironzolare per Udaipur, vagamente barcollanti, alla ricerca di frutta, chissà perché. Fortunatamente abbiamo avuto la coscienza e lucidità di bloccare il nostro irrazionale andare, prima che qualche indù infastidito ci facesse capire che era ora di dormire.
Ho, quindi, festeggiato il compleanno all'insegna della maturità.
”SPECIAL LASSI SPECIAL LASSI SPECIAL LASSI
NO SPECIAL LASSI MAKES NICO GO CRAZY”[1]


MONT ABU
La seconda parte dell’itinerante andare mi ha portato da Udaipur a Mont Abu, errando per il sud del Rajasthan, vicino al confine con il Gujarat.
Mont Abu e’ un luogo emozionante, 14 ore di bus valgono bene la pena d’essere affrontate se poi il panorama che ci si trova di fronte è quello di una vegetazione cospicua e verde. Grande delizia dopo quasi un mese di deserto, ocra, sabbia, mattoni, grigio dell’immondizia; Jaipur insomma. Il verde, pura gioia riassaporarlo, respirarlo nuovamente.
Mont Abu e’ un piccolo paesello, famoso per i templi jainisti, che effettivamente, una volta visitati, mi hanno talmente colpito da spingermi a tornarvici, veramente unici. Un tempio, in particolare, è famoso per le sculture e le lavorazioni su marmo che, oggettivamente, fanno impallidire la nostra visione prospettica.. meraviglioso! “piccia not allowed so postcardzz r comin”.
Mont Abu rimarrà nella mia testa per un sacco di cose.. ho approfondito l’amicizia con alcune ragazze, Amy scozzese, Janine tedesca e Chiara, la ragazza torinese.
Ma rimarrà per sempre nella mia memoria anche per l’esperienza che vado di seguito a raccontarvi. Vagavo con Chiara e Janine in preda alla giornaliera insolazione, sulle rive del lago che disegna il centro di Mont Abu, quando voci, poi associate a delle figure arancioni, hanno attratto la mia attenzione. Allucinazioni, animali preistorici creati dalla mia mente, acidi? Ma certo che no! Bellissimi sadhu ci stavano invitando a sederci con loro. I sadhu sono appunto i d’arancione vestiti, chiamati rinuncianti perché hanno abbandonato tutto per la ricerca della verità e della conoscenza.
Mi trovo dunque in questa situazione in cui, giusto fuori dal tempio, sto appollaiato intrattenendo una discussione con questi signori, d’età e provenienza diversa, che in comune hanno il non parlare inglese, tranne per una semplice ma indicativa frase, caratteristica di una forma mentis condivisa: do you smoke?
Non so che reazione abbia avuto, probabilmente un naturale sorriso ha trovato spazio tra i miei lineamenti, con la testa era già proiettata alla seguente riflessione: se i miei amici padovan-pordenonesi-triestini sapessero che dei sadhu mi stanno chiedendo di fumare con loro sverrebbero, visto il ruolo che il fumo riveste nella vita di alcune persone che il mio muovere italiano mi ha fatto incontrare. “Chilum con i sadhu dunque? Non può essere vero, troppo fricchetton-induista-hippy e postpsirituale.” Se fossimo in Italia la celere comparirebbe da un momento all’altro, ma se succedesse qui, il massimo che farebbero sarebbe sedersi a fumare e a raccontarsi scorci di vita, condividendo attimi di questa vita che qui pur lenta scorre inesorabile.
Il sadhu più anziano, sulla sessantina con il volto avvolto tra barba e lunghi rasta bianchi, prende il suo borsello di tessuto per tirarvi fuori l’unica cosa che contiene: gangia, solo ed esclusivamente gangia. Riflessione: il sopraccitato ha abbandonato sì le properties ma ben qualcosa continua a possedere: gangia. Prepara il chilum ed iniziano il loro quotidiano rito del fumare, rigorosamente da destra verso sinistra. Iniziano i fumeggi, prego si lasci spazio all’allucinazione! La loro abitudine giornaliera al fumo è evidente da quanto tirano quando inspirano. Effettivamente, in qualche minuti cambiano un po’ espressione, ancor più rilassati, strafatti insomma. D’altra parte lo sono per la maggior parte del tempo, essendo questa una “necessità” per creare più facilmente la connessione col divino ed agevolare la ricerca della verità, suppongo.
Comunque, terminata questa esperienza, testimoniata da foto, mi auguro all’altezza, i sadhu non ci hanno fatto andar via, insistendo perché restassimo. Ormai integrati nel loro mondo ci hanno introdotto al loro baba, o guruji che dir si voglia. Questo personaggio, perché assolutamente di ciò si tratta, vive nel basement del tempio, in una stanza/casa ricavata dalla roccia in cui fa veramente fresco. Quando siamo arrivati dormiva. I ragazzi erano ormai incontrollabili, così lo hanno svegliato, solo per presentarcelo! Questo si alza a fatica, inizia la giornata con una scatarrata d’altri tempi, si accende una cicca e senza proferire parola ci comunica ugualmente la sua accettazione delle nostre persone in cotanto sacro luogo. Noi apprezziamo, e in posizione di meditazione offriamo il nostro ringraziamento. Un’esperienza intensa.
Salutati gli amici, ci siamo arrampicati in una casa di roccia, nel mezzo del regno delle scimmie, abbiamo trovato un piccolo loculo e da li ammirato un notevole panorama sul lago di Mont Abu.
Chiara, che certamente è molto più allucinata di me, dice di aver visto un pavone tra le nuvole e che questo è l’animale sacro della sua divinità afro-cubana. Io mi sono limitato a rilassarmi e farmi vincere dai versi degli animali che ci circondavano. Speciale.
Mont Abu ci regala anche uno dei più bei panorami che ricordi. Famosa per il tramonto in sé, è affollatissima di turisti indiani che si raccolgono tutti in un punto. Si decide di trovare la nostra via alla visione temporale del sunset, così arrampichiamo per un pò, raggiungendo un punto isolato e bellissimo. In pochi minuti il tramonto si manifesta nella sua immensità nella vallata che si distende ai piedi della collina da cui ammaliati osserviamo.
“Such a unique, terrific experience!” I commenti che ci scambiavamo erano tutti di questo genere. Siamo tornati a casa consapevoli di aver vissuto qualcosa di unico, che forse ricapiterà o forse no, ma certamente resterà dentro di noi.
il viaggio di ritorno è stato anch’esso, per motivi diversi unico; altre 14 ore di itinerante e poco confortevole andare. Stavolta, però, le giovani compagne hanno voluto la brandina nel bus. I bus a lunga percorrenza hanno i sedili sotto e le brandine – sleepers - sopra. Queste brandine credo, però, fossero state disegnate sulle dimensioni dei bambini indiani. Io e chiara abbiamo diviso il viaggio cercando una posizione decente, condividendo un letto a 2/3 di piazza in due. In aggiunta, costituita da un tessuto simile alla Fiesta dell’amico Gio, risaputamene poco adatta all’uso durante la stagione estiva proprio per il calore sprigionato dai sedili. Non ho sudato niente, no no.
Durante le prime due ore, disteso, guardavo parallelo al suolo oltre il piccolo finestrino, approfittando di un panorama naturalmente onnicomprensivo: montagne, verde, cielo blu e stelle a farci da compagnia nel riavvicinarci a Jaipur. Il tutto condito da un odore di curry e dagli sputi che venivano lanciati da quelli che facevano il viaggio sopra il pullman! Gioia pura.
Impossibile dormire, quindi curiose conversazioni, fino a che, verso le tre del mattino, l’autista ha deciso di mettere musica bolliwoodiana a tutto volume, probabilmente per non addormentarsi. Chiaramente la cassa era installata a non più di 30 centimetri dal mio orecchio. La cosa, però, era talmente improponibile che è stata vissuta con grande ilarità. Dunque, spazio ad un tentativo di danza, il tutto bello, perché locato in un così piccolo spazio. Risate sincere, da quanto non provavo una così semplice ma reale gioia, ridere è bello! Ridete amici!
La vacanza e’ stata verde, al sapore di banana lassi, con una spiritualità diffusa. Tornati a casa nemmeno il tempo di ripigliarsi visto che è stato organizzato un party, come tradizione, a casa della simpatica brasiliana Valentine. Il tutto si è svolto in maniera piacevole. Si era così in the mood che si è deciso di dormire sul tetto, due rigeneranti ore dalle cinque alle sette. Poi, l’apogeo del romanticismo esistenziale: essere svegliati da un paio di minuti di pioggia leggera leggera; che dire, gioia pura.


PUSHKAR
Quello che state per leggere e’ rigorosamente vero, accaduto, con testimoni partecipi.
Venerdì sera siamo stati al festival culturale rajasthano, a Jaipur. Danze tipiche con giovani flessibili in grado di creare figure inaspettate. Danza africana con Chiara invitata a ballare nel palco circolare, con centinaia di persone intorno ad applaudire il diverso che si fonde con il locale. Serata interessante, preambolo ad una due giorni che mi ha aperto un poco mas la mente, il pensiero. Sabato pomeriggio ci siamo trasferiti a Pushkar, quattro ore da Jaipur, una delle città sante per eccellenza dell’induismo, possedendo questa un migliaio di templi ed un lago nel mezzo della città a testimonianza del ruolo chiave dell’acqua, vita e purificazione. Sul lago danno migliaia di gradini che dai templi arrivano all’acqua, collegamento marmoreo con Dio. Vero e’ che Pushkar inizia a subire il turismo: appena arrivati Nicola subito a cercare l’acqua e la probabile benedizione che arriva condita dà spiegazioni e fiori da gettare nel fiume, come puja, offerta a Dio. Arriva, però, anche una richiesta di 1000 dico 1000 rupie per il servizio. Il mio volto deve aver assunto naturalmente un’espressione tale che il ragazzino si è immediatamente ravveduto, scendendo a 50 rupie. La questione è che, l’associare il denaro a Dio, in India poi, è cosa poco nobile, impensabile poi se associato all’idea karmica dove il denaro proprio spazio non lo trova. Allora vagli a spiegare: “ueh chemmidici, r we talking about God or money?“ A questo punto tutto rientra naturalmente, con i suoi occhi, comunque induisti, che riemergono dallo sfracello che l’economia di mercato sta portando. E allora benedicono e stringono mani. Reale scambio di sensazioni.
La serata è continuata con una cena in un locale troppo hippy per essere vero. A Pushkar parlano italiano, pare che le comunità degli elfi e fricchettoni in genere vengano qui spesso. Una Pistoia a Pushkar.
Dunque, cena, onesta, a seguire Lassi, e stonato fui. Nella bevanda di yogurt e latte, abbiamo a posteriori realizzato che deve esserci stata qualche sostanza allucinante, ingenui capiremo a posteriori che nuovamente di Special Lassi si trattava. Sale in testa, sale sale arriva arriva arriva. Capo appesantito. Lasciamo il ristorante e il paesaggio appare sostanzialmente diverso rispetto a poche ore prima. Tutto inizia con una tempesta di sabbia che c’accoglie all’uscita del ristorante, correre a ripararsi, non respirare, respirare masticare sabbia, polvere.
La tempesta si placa un pò, e suoni, improvvisi, emergono. Sono tamburi, sì tamburi, indubbiamente tamburi. Seguiamo vagamente allucinati queste percussioni. La strada intorno a noi non ha forma. E’ grigia, e a ciò si aggiunge pure un black out nella città a causa della tempesta di sabbia.
Grigio, sabbia, tamburi, lassi. Tutto cresce nell’avvicinarsi: suoni, ritmi e figure appaiono davanti a noi. La vita sonora proviene dalla strada dove si sta svolgendo una festa privata. Un cerchio di persone con tamburi dà il ritmo e, in mezzo, le donne si alternano ballando le danze tipiche rajasthane. Per questa che è un bell’esempio di osservazione partecipativa l’antropologo Nicola è già piangente. Ma se a ciò si aggiunge l’invito a ballare, a rendere quella festa, poi scopertasi essere per il matrimonio di una ragazza l’indomani, anche la nostra, le lacrime diventano idealmente irrefrenabili. Quindi ritmi pulsanti, movimenti ondulanti, interazione fisica con uomini solitamente posati completamente posseduti. La musica che cambia, la musica che ti cambia. Balla, balla, osserva, balla, ridi, occhi pesanti, balla, polvere, mangia polvere, balla. Non so quanto sia durato, nessuno di noi lo sa, ed è indicativo di quanto siamo stati rapiti dalle circostanze. Ciò che resterà stampato nel cuore è il padrone di casa che, annunciandoci il termine del party, ci ringrazia, perché, più persone partecipano alla festa, più persone pregheranno e si prenderanno cura dell’anima della sposa. Ancora più lacrime scorrono nell’immaginifico perché la mia pelle ormai non ricorda cosa l’idratazione rappresenti, lacrime mentali condivise.
Proseguiamo il nostro osservare e imbocchiamo la via principale. Il panorama davanti a noi è stordente, e noi siamo allucinati davanti al panorama. Un muro grigio di polvere e sabbia si erge, alla vista apparentemente impenetrabile. Si riesce solo ad intravedere come la strada sia marcata da edifici grigi a destra e sinistra, senza, però, poter lontanamente immaginare dove vada, dove porti. Decidiamo di lasciarla perché troppo inquietante è, anche se ormai la testa è leggera e la gioia dell’appena vissuto ci porta a ridere, tutto è vivere. Troviamo il piacere di sorridere anche dell’incapacità di dare forma.
Imbocchiamo gli scalini che portano al lago, la scena vista dal di fuori è graziosa. Sette persone incapaci di scendere gli scalini, per appunto la patologica incapacità di vedere forme legata al grigiume che ci sovrasta e avvolge. Le tattiche assunte sono state diverse. Personalmente, mi sono seduto sugli scalini e gli ho scesi uno ad uno; c’e’ chi, col corpo rivolto in avanti, tastava prima con le mani e poi a mo di carriola faceva seguire alle mani il corpo. Tutto questo per fare dieci gradini, visto che le nostre risate, a tratti sguaiate, hanno svegliato i cani, santi padroni dei gradini che ci hanno fatto capire come non era consentito proseguire. Allora seduti, il solo pensiero di risalire era al momento una impraticabile lontana chimera. Seduti, persi, seduti. Dopo una mezzora di immobilità abbiamo ripreso piano piano a salire le scale. Non domi, però, ci siamo indirizzati al luogo dove in mattinata ero stato purificato, questa volta più coscientemente. I cani hanno colto questo atteggiamento e ci hanno accolto silenziosamente, assecondando il nostro traballante divenire. Un cane ha iniziato a girarmi intorno, tenetelo a mente. Dunque, raggiungiamo le sacre rive, e li a pochi centimetri dall’acqua leggermente frizzante, scorgo una figura nera, domando, per avere conferma, se è un uomo quello seduto li vicino a noi (a non più di un metro e mezzo da li), e tutti sicuri rispondono affermativamente, quindi suggerisco di non fare chiasso per non disturbarlo. Facciamo piano, peccato che, dopo un’ora di chiacchiera ho realizzato, con estrema difficoltà, che non di un uomo si trattava, ma di una nera roccia.
Io avevo un cane, ricordate? m’aveva adottato, aveva deciso di prendersi cura di me. Abbiamo deciso di passare la notte lì, all’aperto, immaginando figure nel cielo tra luci accennate, riflettendo sul ruolo dei treni e delle piazze nella società del ventunesimo secolo. Per fortuna gli altri erano andati altrimenti si sarebbero annoiati a morte. Il cane era il nostro protettore e da tutti gli altri cani ci ha difeso, lottando pure in un paio di occasioni. Per un momento si è allontanato, per poi tornare preoccupatissimo, si è riseduto, e da re, ha riassunto il comando del suo regno.
La notte, breve, e’ stata bellissima. L’alba e’ giunta puntuale, e con questa il popolo a purificarsi. Uomini e donne a denudarsi e ad immergersi nell’acqua sacra, liberando vesti e membra dallo sporco, dai peccati. Anche qui, io e chiara, stoici rimasti, siamo stati naturalmente accettati. Quell’indianissimo modo di dire si noggling, spostando la testa da sinistra verso destra, c’è stato ripetutamente offerto. Si dia inizio al festival dell’antropologia, alla ricerca del minimo particolare da marchiare indelebile. E così fu, è, sarà; ogni tanto ci guardavamo, ognuno perso nella sua ricerca, giusto per essere sicuri che non fosse un sogno, no c’era il cane, tutto vero. Lasciare quel lago e’ stata dura, il marmo era caldo, trasferirsi lì a vivere un pensiero. verso le otto del mattino abbiamo salutato il lago ormai affollato, la gente già indaffarata con la routine giornaliera. Il cane è venuto con noi, ci ha fatto strada fino alla fontana, ha aspettato che c’abbeverassimo e poi, una volta salutato, si è fatto la doccia lui stesso. Meritato premio dopo aver portato a termine la sua missione: questa vicinanza del cane mi ha sconvolto, lo ho razionalizzato come uno spirito che ci è stato vicino in ambienti a noi poco noti per proteggerci.
Piacevolmente sconvolti abbiamo dormito un’ora sfruttando il letto degli altri che già erano svegli e riposati; un’ora passata in un secondo e si riparte verso il tempio in cima ad una collina appena fuori Pushkar.
L’arrampicata al tempio è lunga ma bellissima, 11000 dico 11000 gradini, per raggiungere in cima alla montagna, Shiva. Lo si respirava Shivaji, ci ha regalato un panorama clamoroso, pieno di diversità, indiano dunque. Vedevamo Pushkar, il verde, il deserto che ormai ha raggiunto la città, sterminate pianure, montagne, noi.
Inevitabile meditazione della riflessione.. so deep.
La seconda cosa e’ stato il viaggio da Ajmer verso Jaipur, dove abbiamo cambiato il bus sulla via per tornare a casa. Il primo bus ci ha lasciato in qualche luogo più o meno imprecisato della città; chiediamo dové la stazione dei bus, e tutti a darci indicazioni differenti. Decido d’affidarmi agli occhi di un rickshaw-driver e prendo una via, e gli altri a seguirmi, ingenui? Dopo un’ora di strada in cui le ragazze si innervosiscono e mi lanciano maledizioni in diverse lingue, olandese e inglese in particolare, arriviamo alla stazione, per fortuna c’avevo azzeccato! Un’ora di coda per i biglietti a causa della stampante che non funge. Quindi tempo a disposizione, grandi chiacchierate con i viaggiatori della notte, migranti del nostro tempo, pendolarismo che qui si manifesta nel bus, meno caro. La vacanza ci ha fatto pure finire i soldi, così vado da un venditore d’acqua con 6 rupie a chiedere se mi dà mezza bottiglia d’acqua (che normalmente costa 12rupie). Questo mi ha guardato stralunato, dicendo che problemi ha questo giovane occidentale? Rifiutando la mia offerta mi ha però consigliato di riempire le bottiglie nei rubinetti della stazione, tanto l’acqua è filtered, filtrata appunto. Mi sento uno stupido visto che in un mese e mezzo d’India non me ne ero accorto, spendendo utili denari per acqua minerale che pure non mi piace. Ma ora lo so. Tra amici prendiamo questo autobus dei fifties, che aveva lasciato gli ammortizzatori nei seventies. Facciamo il viaggio nell’ultima fila in sette, belli comodi, anche in questo caso non ho sudato niente, no no. Questa e’ stata la mia due giorni a Pushkar, due giorni importanti, che mi hanno dato suggerimenti sostanziali.


IL MATRIMONIO HINDU
Fatico a raccogliere le idee. Questi ultimi dieci giorni sono stati tra i più intensi che ricordi, non solo relativamente all’ esperienza che vado a raccontarvi, ma più in generale relativamente a questa vita mea. Non è più il caldo, Allah ci ha benedetto, sono arrivati i Monsoni, piove e la mente trova refrigerio. Non è la profilassi antimalarica, quella mi fa solo stare male a scadenze programmate, instillando la necessità di ripetute e sostanziali visite ai sempre allettanti bagni di qui o dell’altrove. La cosa è semplice e banale come dice Manuel Agnelli, la testa mi si è riempita, come l’ hard disk del mio portatile, implorando nuovi spazi per la memorabilia. Sto scrivendo molto, temo, fortissimanente temo, di non riuscire a cogliere tutto la pura essenza, la madida realtà. Dare forma di parola, di disegno, di fotografia, perché gli sguardi, gli scambi celebrali, le strette di mano, i luoghi non scompaiano.
E, come sempre, desidero condividerlo con voi, Nicola e la condivisione. Spero col tempo riusciate a cogliere quanto intime possano essere le cose che vi dico, indipendentemente dall’oggetto narrato. Sono cose vorrei riuscire a trasmettervi, perché anche voi cresciate mattone di fango dopo mattone di fango, aspetto sempre con fiducia i vostri pensieri, i vostri suggerimenti, per diventare un po’ più consapevole anch’io.
Queste giornate, sono iniziate con il mio primo grosso grasso matrimonio indù, che di grosso e grasso aveva ben poco vista la condizione delle famiglie degli sposi. La cerimonia, meravigliosa, si è svolta nella notte tra un sabato e una domenica, di fronte ad una luna già calante. Lo sposo era un cugino di Rajesh, il mio amico indiano. Rajesh meriterebbe un’autobiografia tutta per sé: 26 anni, viene da una famiglia in cui tutti, tutti hanno fatto, fanno e faranno i tassisti. Rajesh vive appena fuori Jaipur, in una via in cui tutta la sua famiglia vive: una trentina di persone raccolte in un fazzoletto di terra alle porte delle open-toilets della città. Rajesh vive in una stanza, in una casa onesta fatta di tre stanze, insieme a padre e madre, naturalmente, e un nuvolo di fratelli e sorelle. Rajesh ha fermato me e chiara nel centro di Jaipur, domandandoci se eravamo i tipici turisti che non volevano parlare con gli indiani, e trovando forse le uniche due persone che bramano il contatto e lo scambio con questa gente. Rajesh ci ha invitato a casa sua per il chai, tè, per chiacchierare e “to make this friendship last for ever”. Poche, semplici parole che valgono più di anni passati a discutere di nulla. Lo abbiamo già visitato alcune volte, ci tornerò domani probabilmente, ma stavo scrivendo del matrimonio. Ecco, dunque, Nicola vestirsi di un korta, tipico abito indiano, salmone, costato una fortuna (8euro) in puro cotone, fresco ed elegante, indianissimo nelle forme. Ecco Nicola che tira le antenne e spreme le meningi, per rendere ogni conversazione speciale, ogni passo pesato. La cerimonia inizia con lo sposo a bordo di un cavallo, entrambi, uomo ed animale, agghindati secondo la tradizione. Si inizia a muoversi verso la casa della futura sposa con al seguito famiglia e amici. Per inciso il nostro amico sposo ha 16 anni, e la moglie, forse, 14. Ovviamente un matrimonio combinato per la felicità di tutti gli interessati. Questo tragitto è condito da una banda di percussioni che suona su richiesta e raccoglie le offerte dei presenti, pagamento della loro prestazione. La musica, in indi, è bellissima, è calda, veloce e lenta, e i ragazzi, rigorosamente solo uomini, si scatenano, trascinandomi, ma nemmeno troppo perché la voglia di ballare è sempre tanta, in queste danze forsennate, con annessi movimenti di braccia tipici di questa gente, con i loro occhi e i miei sempre più persi nel ritmico tamburo, come a Pushkar in quella santa notte. Il mio bell’abito diventa presto una pozza di sudore, così che il salmone lascia spazio a un colore caldo che non mi dispiace affatto. La divisione dei sessi nelle danze viene rotta da Chiara e a seguire da un paio di donne; sono profondamente convinto che gli uomini non abbiano resistito all’idea di ballare con una occidentale, di indiano vestita, con bidi e bracciali rajasthani. E lei, che di danza si nutre, non poteva che respirare questa eccitazione e viverla con intensità. Rajesh nel frattempo, chiestomi un po’ di denaro, era andato a sbevucchiare, mentre la sua famiglia preoccupatissima chiedeva a me !?!, se per caso sapessi se Rajesh era andato a bere. Lo ritroverò più tardi, alticcio, molto alticcio, ma ancora più divertente. La cerimonia, raggiunta la casa della sposa, è consistita in una serie di benedizioni offerte all’uomo da un bramino, e a seguire lauta cena per tutti. Terminata questa pausa, con grande calma e quiete indiana, si è arrivati al punto a me più caro: la cerimonia dei passi intorno al fuoco. Ho avuto l’enorme piacere di sedere vicino allo sposo in questo sacro tempo. I bramini proferivano preghiere in sanscrito, gli sposi non si guardavano ne toccavano come da cerimoniale, ma credo non gli interessasse proprio, fino a che è stato dato fuoco allo sterco di vacca secco, le benedizioni sono aumentate esponenzialmente e, finalmente, le mani sono state avvicinate, unite da un panno. Gli sposi si sono alzati, mano destra unita a mano destra, la sposa davanti e lo sposo legato a lei, hanno iniziato a girare intorno al fuoco, ripetutamente. Sapevo fosse magico, ne ho avuta piena certezza vivendolo. Emozione ben diversa, né peggiore né migliore, dei nostri matrimoni. La serata poi si è sciolta con Rajesh che ha insistito perché assaggiassimo questo cherry whine da lui tanto decantato, che si è poi rivelato essere alcool puro, imbevibile, che lui trangugiava al salto. Alla fine il giovane era ubriaco, ci ha invitato a riposare un pò e lui ha fatto lo stesso. Riposare è stato bellissimo, nel palco rosso, dove fino a poco prima stavano gli sposi, ora c’eravamo noi ed un nuvolo di ragazzini che dormivano placidi, felici, posando sul suolo santificato le membra stanche. Alle sei del mattino, svegliato a fatica Rajesh, lo abbiamo gentilmente invitato a portarci a casa. Dopo mezzora passata dentro la macchina che doveva accompagnarci, circondati da persone mai viste, abbiamo abbandonato l’opzione veicolo e a piedi ci siamo incamminati verso casa del nostro amico. Ovviamente, e magnificamente, è iniziato a piovere a frotte, i nostri vestiti zuppi e Rajesh che si toglie la camicia e me la da per coprirmi mentre lui saltella felice danzando e celebrando la pioggia stessa. Il cielo grigio, il cuore caldo. Capelli bagnati su volti ridenti. Un’ ora dopo eravamo nel rickshaw che ci accompagnava a casa.
Serata intensa, mille motivi, scritti e pensati, visti e esplorati.
Serata che resterà in queste parole.


DA JODHPUR A JAISALMER
Lascio Jaipur un lunedì a tarda sera. E’ una città già diversa da quella da poco scoperta, che forse inizio a conoscere; il caldo, a volte tremendo, ha lasciato spazio ad avvisaglie di monsoni, l’aria è più fresca, comparabile alla nostra primavera. Primavera di monsoni. Lascio una camera che alle prime piogge già rischiava d’allagarsi, la ritroverò intatta, con quell’odore, sapore, ormai suo, che non e’ solo il mio, con un sacco di nuovi insetti usciti dal letargo che infastidiscono il me medesimo, tanto da rendere ridicole le mie reazioni ad occhi altrui. Intraprendo questo viaggio in compagnia della persona con cui più ho legato in questo mio dinamico muovere indiano, Chiara. La pioggia c’accompagna, veloci verso Jodhpur, la città blu, di cui Bundi c’aveva fornito una distillata anteprima, corollata da sparse evacuazioni in vari punti della città. La raggiungiamo alle prime ore del mattino, ci facciamo trasportare al forte, dove la vista è migliore, così da goderci una memorabile alba. Nuovo sole cresce. Nuovo sole cresce tra uomini intenti a meditazioni yoga. Mi addormento in bilico tra le cinte delle mura ed il precipizio, un paio d’ore rilassanti, interrotte dallo schiudersi d’occhi scaldati dal sole, secchi da pizzicare, ma abbagliati da sguardi che li sciolgono. Jodhpur mi regala l’incontro con Sara, la ragazza spagnola conosciuta a Londra lo scorso inverno durante la mia traineeship all’Istituto di Cultura Indiano. La trovo in compagnia di questo rumoroso messicano che di nome fa Americo, e di fatto è un filoamericano con rimorsi di coscienza che ora inizia a scoprire la propria cultura. Sara è sempre Sara, con una decina di chili in più ad arrotondarla e a farla tanto moglie indiana. La conversazione è limitata da questo uomo, il suo uomo, per altro, onnipresente e che mi appare piuttosto immaturo.
L’idea di raccontarsi questi mesi così intensi per entrambi vacilla, pare trovare un sentiero comunicativo, presto interrotto, fino a che arrivano la sera ed i saluti, tristi e felici, comunque saluti. Sono cose a cui fatico ad abituarmi; nonostante il mio vagabondare forse non lo farò mai, soprattutto se le persone in questione sono speciali: incontri e scontri, scambi ed interscambi, binari paralleli che si incrociano, per poi tornare paralleli, scrutandosi senza mai sfiorarsi. Imbocchiamo un’altra via dunque, l’ennesima, ancora io e chiara, destinazione Jaisalmer, il deserto del Rajasthan, l’india musulmana ai confini con il Pakistan.
Permettetemi un breve inciso. La forza con cui associamo ai luoghi ciò che la tv racconta è comune sapere; nonostante ciò non smette mai di pizzicare la mia corteccia. Racconto a mera mama il viaggio e quando le dico che Jaisalmer è vicino al Pakistan, parola chiave, a momenti sviene. Come se i problemi fossero tutti li, l’India non ne avesse e la sola vicinanza al confine comporti maggior pericolo. D’altronde lo dice la tv, no? In realtà in questi giorni mi sta venendo una gran voglia di andare in Pakistan, a respirare un pò di spiritualità musulmana. Purtroppo, però, visto il poco tempo a disposizione credo opterò per la scoperta di questa India a tratti nazionalpopolare.
Il viaggio verso la terra che brucia è probabilmente il più confortevole di questo mio andare; prendiamo un treno con cuccetta, comoda e piuttosto ampia, in compagnia di un gruppo di soldati indiani, muniti d’armi e di tanta ingenuità. I treni indiani - la rete ferroviaria più grande del mondo, che fa pure il maggior numero di morti - non hanno finestre ma sbarre orizzontali che ti ingabbiano, carcerato impossibilitato a raggiungere ciò che il panorama appena lì fuori offre: cielo blu, luna, stelle, sabbia, dune. Sabbia e dune, vento, fresco vento, vento caldo. Veli. Palandrane. Rilassante rilassarsi.




IL DESERTO
Jaisalmer è conquistata all’alba, da colonizzatori, con i servi che si prendono cura del bagaglio e di noi, ci caricano in una confortevole jeep e ci portano all’ hotel dove, prima del safari, ci viene offerta gratuitamente una stanza per lavare la stanchezza del viaggio, riposare le membra, preparare le menti a ciò che sarà. Di nuovo carichi, eccitati, persino di buon umore e con un po’ di charas nel bagaglio, ci avviamo verso il punto d’incontro, senza tralasciare di visitare due splendidi templi jainisti dove una signora sembra ramazzare dall’alba dei tempi, all’infinito – rispetto ai templi hindu i jain danno molta importanza alla bellezza, all’aspetto del tempio; non per niente la cosa più bella ammirata fin ora in Rajasthan e’ il tempio jain a Mont Abu – Il tempio e il tempo. Il tempio è il tempo.
Incontriamo le nostre guide: Ali, un ragazzetto giovane dagli occhi vispi, i denti segnati ed un insito bisogno d’affetto e di carezze, e Ramdan, un uomo con dieci figli ma forse sei, che si rivelerà gentile e pure un buon cuoco. C’e’ un giapponese, dall’inglese scostante, con cui, nell’unico giorno in cui avremo contatto visivo, non scambieremo nemmeno una singola parola.

Signore e signori, lo spettacolo abbia inizio, si apra il sipario, ognuno al proprio posto, che il deserto faccia la sua apparizione..
Sella il cammello, monta il cammello, cammella il cammello. In un attimo si riattivano addominali in letargo da tempo, si sviluppano piaghe dove il sole non batte e non batterà, ma dove i dolori si sono fatti e si fanno sentire. In tutto ciò il cammello: animale che incuriosisce e affascina; dinoccolato, con due ginocchia a triplice piega. Quando si alza, cosi come quando si abbassa, prima si spinge in avanti rischiando di farti cadere, poi si rigetta indietro ed infine si accascia. Triplice movimento, la triade. Altra peculiarità di questo buffo animale è l’odore; se è vero che non puzza particolarmente, quando evacua gas sembra venga da una cena a base di cavoli lessi. La bocca, una serie di denti enormi che si lanciano in direzioni inconciliabili l’una con l’altra; e, infine, la masticazione, moto continuo durante le ore diurne come di notte.
Ma iniziamo ad andare, l’ambiente intorno a noi e’ quello che ci si può aspettare, deserto. Ogni lustro c’e’ offerto un albero, un pozzo, un villaggio, cammelli, gazzelle, uomini, pecore. Intavoliamo una proficua discussione in cui ce la raccontiamo e ci raccontiamo, sistematici, sboccati e divertenti, antropologi fino all’osso. A scadenze determinate, suppongo in corrispondenza dell’ora della preghiera, Ramdan intona magnifici inni ad Allah; riecheggiano intorno a noi e ti fanno sentire vivo, il caldo e’ notevole, il sobbalzare stancante, una voce e dell’acqua sono appigli implorati. Il primo tramonto nel deserto e’ vissuto dalla più alta duna nei dintorni; e’ arancione, rosso e viola, azzurro e blu: tutto il cielo cambia colore in pochissimo tempo, tutte le sensazioni del mondo ti passano attraverso sotto forma di vento e sabbia, sonorità nuove. La sabbia scivola dalla cima delle dune a formare valanghe, la sabbia ha una consistenza simile alla neve. Arriva pure la pioggia e la tormenta di sabbia, che ci forza a ripararci sotto un telo di plastica dalle misure sballate che tanto ci fa ridere. La pioggia come e’ venuta se ne va, lasciando spazio alla sacra charas, ai giochi con le palline per chiara, alle stelle per Nicola. La charas ci scalda, il cielo diventa ancor più stellato, pieno di spiritelli con cui fare girotondi, prendersi per mano, chiacchierare, solo ascoltare: mi consigliano d’andare....Ma riecco la pioggia.. pazzo deserto che così tanta acqua non vedeva da tempo.. nuovamente ci ripariamo alla bene e meglio, questa volta ridendo un sacco e svegliando pure le guide che, mi sa, s’arrabbiano. La notte sarà breve, il sorgere del sole e il profumo del chai ci risvegliano presto, lieti.
La prima sensazione del mattino e’ il sedere striato, sedendomi sento ogni singola piaga, pizzica maliziosa, consapevole di quanto mi farà penare. La seconda sensazione sono i muscoli di spalle e schiena: mi ricordano il corpo abbacchiato dalle ripetute del “Principe”. Ciò che emerge, però, è la gioia di iniziare un’altra giornata in questo fatato mondo: lontani da babilonia e pure da jaipur, lontani da tutti e da tutto, vicini ai propri pensieri e alla propria pazzia. Mi alzo e vago tra le dune, ammiro il sole crescere, qualcosa attira la mia attenzione. Una kefia, una kefia? Si, li. Diventerà il turbante che m’accompagnerà per il resto del viaggio.
L’obiettivo della giornata e’ un’oasi, un laghetto in cui immergere corpi già stanchi; lo raggiungiamo presto e il godimento e’ molto. E’ poco profondo e zeppo di fango, forse di serpenti, trasmette un’eterea freschezza che bene fa al corpo e alla mente. Alcuni rajasthani, neri nel loro bianco turbante, immersi nell’ombra di un verde albero, ci invitano ad immergerci maggiormente. Forte della loro protezione e benedizione, felice lo farò. Riprendiamo il viaggio, tutto è così bucolico che arriviamo a guardarci le nostre popò defecate all’aria aperta, restando pure ad analizzarle giocosamente. Cacata a pecora, cacata poco consistente. Ridere. Cammelliamo, sobbalziamo, collassiamo dal caldo, tanto da fermarci, prima del previsto, accendere un fuoco tra piccole dune, goderci un gustoso chai, che in queste condizioni è un germoglio di vita, donata. Il sole scende placido mentre riposiamo all’ombra di verdi piante, miracolo della natura che dimostra quanto sia davvero dea e padrona di questa terra.
L’antenna. Decido che e’ tempo di dare forma all’antenna a proposito di cui avevo scritto un paio di righe a gio, non colte. Chiara si mette al lavoro ed in un’ora il mio piccolo dread in mezzo alla testa, lì proprio dove è l’attaccatura della nuca, nasce. Il rito e’ bellissimo, sacro quanto il rastafarianesimo è. Condito di sabbia, vento, acqua, parole, nodi e saliva il piccolo dread cresce, benedetto dal Jah rastafari. L’antenna vuole essere la forma della ricettività, sostanza, che quieto cerco di sviluppare. Si propone come strumento di vita e lavoro, rapida si salda, e’ già parte di me. Fa sorridere, sganasciare, chi mi vede perché sta ritta sopra la testa, lì imperturbabile, attenta. Mi piace un sacco. Riprendiamo il racconto. La serata continua condita da gran bei discorsi, dal dare e dal ricevere, pur con consistenze diverse. La situazione si fa intensa quando compare un cane, femmina. Vi ricordate a Pushkar, il cane che c’aveva accompagnato durante la magica nottata sulle rive del lago? Ebbene, nel mezzo del deserto, a chilometri da qualsiasi villaggio o forma di vita, questa cagnolina si presenta li, ci saluta, si accomoda vicino e condivide con noi le sensazioni; belle o brutte è chiaro che le senta. Sono seriamente affascinato da questi accadimenti, piuttosto stimolanti; ditemi voi che probabilità ci sia che un cane ti si sieda accanto nel mezzo del deserto, si prenda cura di te, e, come l’altro, il giorno successivo ti accompagni fino a quando si raggiunga un lago, a Pushkar era una fontana. Di acqua come elemento sacro e purificatore sempre trattiamo. Ci si lava, purifica, ci guarda, saluta e, consapevole, se ne va. Stessa identica cosa accaduta a Pushkar con l’altro cane. Qualcosa c’è, accompagna il nostro peregrinare, assicura noi e le nostre anime. Veramente forte, brividi. Spossato dal tutto, che e’ molto e forse di più, assonnato e stanco, crollo; il corpo sente la stanchezza, la mente madida medita.
Il mattino successivo ho la conferma delle mie sensazioni: svuotato d’energie, perse dal corpo di giorno e dalla mente di notte, cerco di cammellare, conscio che sia l’ultimo giorno e che un po’ di sana fatica e sobbalzamento de los marones sia più che accettabile. Ma il corpo cede di schianto, mi devo fermare, ingurgitare dello zucchero, provare a ripartire, per essere però presto costretto a fermarmi e riposare per qualche ora. La siesta scorre veloce, si riparte, c’e’ un viaggio da portare a termine. Chiara si perde in sogni rilassati e, al risveglio, trova una pezza di sari; più tardi la spezzerà, e la legherà vicendevolmente ai nostri polsi, a mo’ di bracciale.
Vuole essere il suggello di questo che, almeno per un po’ e poi chissà, sarà il nostro ultimo viaggio e, tiene a celebrare, in generale, questo tutto sommato buon incontro. Il suo prode folletto arriva in settimana, lasceranno Jaipur per iniziare un più che stimolante viaggio di due mesi e mezzo alla ricerca della reimmersione panica nella natura, arrampicando, tutto compreso nel loro felice rapporto d’amore matrimoniale. Il deserto fortemente mi ha segnato, eternamente, in tutti i suoi minuziosi, favolosi, irrimediabilmente tristi, speciali momenti, si e’ tatuato, un dread mi ha lasciato. E, ovviamente, un appendice di malessere con forme evacuative mi ha regalato.


RISHIKESH
Questo e' il racconto delle tre giornate a Rishikesh, capitale mondiale dello yoga, o almeno così detta. se vi interessa e' il luogo dove i beatles sono venuti a rincitrullirsi; due giornate pienissime. due giornate formanti. nel bel mezzo dei festeggiamenti per il mese di shiva.
Esco e inizio la graziosa passeggiata che porta al ram juhla bridge, mezz’oretta tra i colli, sotto una pioggia battente, indossando scarpe e pantaloni rigirati. mai sentito così turista. Giungo al ponte ed e' il delirio. migliaia di corpi arancione sommergono la terra. non c'e' spazio disponibile, solo arancio all'orizzonte (colore di shiva) e suoni di BOM BOLENAT (inno a shiva) e mille altri cori. Interessante che tutti indossino lo stesso tipo di maglia, in alcuni modelli differenti. Inconsapevole turismo nel pellegrinaggio? necessita' di equipararsi davanti a shiva? obiettivo raggiunto.
Dunque, attraverso il ram juhla bridge per raggiungere le scalinate che portano alla sacra ganga, dove tutti si bagnano nelle acque sante. Il ponte pedonale oscilla pericolosamente, paurosamente.
FLASH: il ponte cade, duemila morti e uno straniero, un italiano. REAZIONE: “ma cossa feo in quei posti la'. che se sa che ie pericoeosi, con quea zente po.”[2] REAZIONE NICOLESCA: va beh, se deve succedere che sia ora, sensazioni forti cosi si provano poche volte. Mater Gangam accoglimi.
Terminato il lungo flash, per altro bello lungo, scopro che il ponte e' attraversato, e' ancora in piedi e io sto bene. ottimo. Mi muovo per non essere sommerso e con discrezione mi avvicino agli scalini, scendo, foto, ganga. e' un incessante intonare di cori, brividi. e' un incessante spogliarsi, bagnarsi, giocare nell'acqua, morire di freddo, rivestirsi, ridere, gridare.. MIO DIO E' BELLISSIMO, speriamo le foto rendano. Ci ho le immagini in testa e questo mi basta.
E allora via, cerchiamo un posto tranquillo, via le vesti da sir inglese, ed eccomi bianco da far impallidire pure me di fronte a questi corpi dipinti di magia. tastiamo, freeeddaaa, fangosa, puzza di merda. bene così. immersione parziale, risciacquo, puzzo più di prima MA sento gli sguardi della gente che approva scaldarmi, che feeling. Nel pomeriggio tornerò alla ganga, cercherò un posto appartato, trovandolo insieme a due ragazzini (uno si fa lo shampoo..) tre vacche, un cane, un cavallo e un sacco di puzza di merda - residui organici lasciata dalla ganga che in questi giorni inizia a rientrare. Tramonto, oh my god che tramonto, risciacquo, stanchezza che sale. Aspetto le prime puja, aaahhh, immaginate al calar del sole queste donne che preparano le offerte, un lumino raccolto in delle foglie lasciato scivolare nella ganga. OFFERTA AUSPICIO.. necessariamente legate?
Il fiume NERO dipinto di GIALLO GIALLO GIALLO.
Il giorno dopo e' il di' del pellegrinaggio al tempio di shiva. ovviamente non riesco a svegliarmi all'alba. vabeh. parto quasi alle dieci, lascio la casa che diluvia, me ne accorgo perché non ho il kway e dopo un secondo sono zuppo. tanto vale continuare no? la pioggia non durerà a lungo, solo il tratto di salita asfaltato perciò perfetto; quando inizia a salire veramente tutto è asciutto.
sono FELICEMENTE l'unico straniero che vedo tra decine di migliaia di corpi arancio. loro reazione: sospettosa per alcuni, indifferente per altri, curiosa per altri ancora. Comprensibile, stanno vivendo un momento sacro. fra l'altro dappertutto e' pieno di bandiere del BJP, il partito nazionalista hindu, e quindi come miscredente mi merito tutte le loro perplessità. Le cose migliorano quando inizio ad intonare BOM BOLENAT ( pare sia un ringraziamento a shiva, la religione oltre ad influenzare lo spirito, o forse soprattutto per questo, influenza anche il corpo. cosi' questi si fanno la scarpinata di tre ore e mezza CORRENDO. io arranco a camminare ma il mio fisico sta reagendo, sono vivo! belle queste ore passate in mezzo alla gente. c'e' anche chi compie la scalata distendendosi, allungando la mano e segnando il punto raggiunto. poi si alza e riprende dal punto segnato distendendosi.. immagino ci voglia una decina di ore cosi.
La fede.
Paesaggi fantastici, storpi ovunque, leggerezza di spirito e grande consapevolezza, associate e dissociate. ci sono pure gli uomini vestiti da donna ( gay non sono proprio ben visti in india, ma questi sono accettati durante le cerimonie sacre), fino a che arriva la polizia e li porta via. mah. ci sono le bambine truccate da Shiva, Parvati e Lakshmi nei cui occhi si legge un “che diavolo mi state facendo fare”. ci sono uomini con dei serpenti enormi, non cobra, forse boa. sono enormi.
Insomma dopo la scarpinata si arriva in cima, altra mezzora di saliscendi e inizia l'iperdelirio. La polizia incolonna i fedeli e nicola a due a due. come sardine pronte per essere inscatolate ci infiliamo in una strettoia. si arriva dopo un tempo che appare infinito al luogo sacro. all'entrata tutti gettano un po' d'acqua della ganga sulle scritte inneggianti a shiva. poi ci si incolonna velocissimi e si entra nel tempietto, velocissimi. si svuota l'acqua di fronte alla murti senza neppure il tempo di giungere le mani in preghiere perché l'ADDETTO ti scaraventa fuori a forza. che grandissima storia.. PAZZI o FEDELI o tutte e due. Interessantissimo.
Poi tutti si sciacquano, lavano le vesti, cammino fino all'atro tempio, mi riposo, mi godo il paesaggio. sono stanchissimo e al pensiero di ricominciare allungo gli attimi riposati. Riparto, prendo per tre volte la strada sbagliata, forse il consiglio di tre indiani che giurano sia la strada giusta non aiuta. Da igual, bevo due litri di acqua al salto, sudato? no no. Scendo mentre frotte ancora salgono, probabilmente vogliono arrivare in cima per il tramonto. io scendo, esausto.
Delle g8ttine in cerca di "divertimento" mi fanno ritornare nel mondo materiale tutto d un colpo. ancora una volta il modello g8ina funziona. se:
hai barba, capelli lunghi, arruffati o rasta
sei magro, il più scarno possibile
non sei completamente fuso
suonacchi
ciuoe' sei troppo in viaggio a cercare TE STESSO.

Ecco queste più o meno superficiali caratteristiche bastano a scaldar loro il ventre e quant’altro. Dato che all'apparenza ricalco buona parte di queste caratteristiche, in sette otto ore sarò approcciato da:
numero due francesi, una tipa che ho abbandonato senza nemmeno carpirne il nome né da dove venisse, due israeliane di cui una bellissima, e una meno bella a cui ho dovuto chiudere la porta della mia camera dell'ostello in faccia... non sono proprio in the mood.
E allora eccomi a scrivervi. Parto tra due ore per Manali, o meglio per Haridwar e a seguire Manali. Arrivo domattina, un viaggio piuttosto comodo, sì.
Qui ero in un triangolo tra Nepal, Tibet e Cina. Lì sarò più vicino alla Cina e al Kashmir, ma soprattutto nel bel mezzo dell’Himalaya indiano. Non alloggerò a Manali perché è piena di fricchettoni che hanno lasciato Goa durante i monsoni, trasfendosi qui per l’estate. Pare ci siano dei villaggi vicini, di certo c ‘è la montagna.


DA RISHIKESH A LEH VIA MANALI
Il viaggio da Rishikesh a Manali e' durato 22 ore. E' stato comunque spassoso. All'inizio del viaggio abbiamo attraversato un ruscello/fiume in piena.. CON IL BUS.. tutto questo mentre osservavo carcasse di autobus che avevano tentato lo stesso passaggio restandoci.. Ho attraversato un fiume in piena con un bus degli anni cinquanta. gulp. E' stato oltremodo spassoso perché s'e' bucata la ruota del pullman e dato che eravamo all'inizio del viaggio il conducente non ha voluto arrischiarsi ad usare la gomma di riserva. Dunque, al calar del sole, siamo stati fermi tre ore tre: tempo necessario a trovare un meccanico. Ma c'e' stato inevitabilmente il risvolto culturale; uomini e donne anziani che viaggiavano con me si sono riuniti in cerchio ed hanno iniziato ad intonare inni sacri, il tutto all'imbrunire.. brividi. Sono giunto a Manali per lasciarla subito per Vashisht, un villaggio tre chilometri più in su tra i monti. Caricatissimo, perché avevo prenotato una stanza in un ashram! Yoga dormire e mangiare a 100rs.. peccato che appena arrivato si siano trasformate in 200 rs e che l’atmosfera da ashram fosse lontanissima. Comunque, a Vashisht c’e’ un bellissimo tempietto di legno, all’interno del quale sono presenti delle vasche d’acqua calda dove ci si può lavare gratuitamente. Bello, gente del posto, Nicola e qualche altro prode, si lavano con la saponetta, seduti in posizione cacata indiana. La prima sera mi siedo in un posticino a mangiucchiare qualcosa e parla che ti parla conosco OM BABA, un sadhu per modo di dire, e Maurizio, un italiano che non si è più ripreso dal ’68. La serata procede tra chiacchiere fino a che conosco il cappellaio magico. Figura che m’appare mitica fin dal primo istante. E’ un signore sulla settantina che passa la vita tra il suo garage ( negozio di cappelli dove ci dorme pure) e il ristorante di fronte. Ci chiudiamo nel suo posticino, abbassiamo la serranda e giù gran discorsi con il cappellaio magico, om baba ed il mio padrone di casa. La cosa meravigliosa e’ che om baba, rasta col cappello di Marley e con le gambe atrofizzate, mi dice che c’e’ una camera libera in parte alla sua a sole 50rs. Vado a vederla, e’ il triplo della mia a san donà.. un sogno. Il mattino dopo, saluto il guruji dell’ashram e mi ci trasferisco, passandoci tre notti.
Finalmente clandestino, finalmente libero da carte da firmare.
Vashisht e’ piena di israeliani fattoni e di gente che passa la giornata a fumare chilum. Nelle quattro giornate passate lì incontro Chiara, spendiamo le ore piacevolmente ed intensamente, prima del saluto. Il suo uomo e’ arrivato e viaggeranno insieme, saluti e a presto.
Bene per loro, bene per me viaggiare da solo così da capire veramente un po’ di cosette. Anche se per Nicola condividere e’ tanto. Ma ho le parole ed eccomi qui. Una delle cose che ricorderò di Vashisht sono le giornaliere passeggiate verso le sorgenti, una mezz’oretta per raggiungere un luogo incantevole, dove i pensieri fluttuano veloci, e fare una chiacchierata con la divinità locale è un piacere ed un impegno, gli si rivelano sensazioni, propositi e desideri.. gli si dice che, anche se non si sa in quale forma, si e’ fiduciosi. C’è pure la voglia di trasferirsi a vivere con i sadhu tra le rocce. Mi ricorderò un sacco di sporcizia: puliscono la piazza del paese perché ieri è iniziato il festival di Shiva e di altre divinità locali, caricano la sporcizia su un camion e la scaricano sul ruscello all’entrata del paese.. o le bruciano alla sera tra le guest house.
Mannaggia, ci vorrebbe una bella garbage policy.. dove sono le ong?!?
Ricorderò la benedizione dei luoghi con gli strumenti tipici, i posseduti che si agitano danzando. Ricorderò l’occidentale che desacralizza le calde piscine, bagnandosi insieme alle donne, quando il tutto dovrebbe essere rigorosamente separato.
Ricorderò occhi splendenti, lucidi, persi.
Ricorderò parole illuminanti, altre dissacranti, altre ancora dirompenti nel loro significato.
Ricorderò il racconto di om baba che quando e’ triste si chiude in camera e piange, ma per strada è sempre sorridente ed è il primo a salutarti.

Alle sette del mattino del 30 luglio parto per LEH, la raggiungerò il giorno seguente alle ventuno. Giusto fuori Manali capisco di aver fatto una gran scelta, il paesaggio diventa mille volte più bello.
La prima giornata di viaggio si conclude prestissimo, a Keylong, in un posto da cartolina, forse la cartolina. I rumori che si sentono sono: silenzio, uccelli, acqua che scorre, i sassi mossi dal passeggiare di uomini e donne con la schiena carica di ceste di erbe, monaci che pregano. Visioni paradisiache: w il Ladakh! Nel bus ho incontrato un ladakhi diciottenne che pare più vecchio di me e ci ho chiacchierato un pò, bello parlare con un locale. Il viaggio e’ da fantascienza, e lo sarà ancor più il giorno seguente: le strade non sono asfaltate, o forse lo sono state vent’anni fa, il resto è sassi e terreno cedevole. Ovunque la strada è interrotta per caduta massi. Ma tutti sono rilassati, io pure, al massimo eccitato per il clamoroso panorama. E’ verde d’erba, giallo e viola di fiori che danno l’incanto, è bianco di neve, è grigio di roccia, è polvere color marmo. La strada arrampicando la montagna segue il corso del fiume sottostante: ogni volta che incrociamo un veicolo e’ un’avventura, ci si sfiora e, se si tratta di un bus, gli autisti approfittano per farsi una chiacchierata. Il tutto a tremila metri d’altezza con lo strapiombo ad un paio di centimetri.. shanti shanti.. Si dicono come va? Che fai? La famiglia? E’ bellissimo.. globalizzazione delle parole. Incrociarsi per i bus driver e’ come bere un caffè in piazza per noi, o un chai al baretto per gli indiani, o scambiare parole in treno con qualcuno che non vedi da tempo. Nel pomeriggio, su consiglio del tipo del dormitorio dove starò insieme ad altre sette persone per 20rs, mi incammino verso un monastero: da buon montanaro perdo il sentiero e mi ritrovo tra la roccia sdrucciolevole. Che belle sensazioni.. perdermi mi ha fatto scoprire che mi piace sollazzarmi tra le rocce. Solo, in mezzo ad un paesaggio fiabesco, condividendolo senza intaccarlo. Arrampico per un ora e raggiungo il monastero, lacrime di felicità nell’associare ciò a persone.
Incredibilmente due giapponesi mi danno lezioni culturali: a poco dal monastero c’è un luogo dove si prega, buddismo tibetano.. si gira in senso orario intorno a questa installazione e si prega Dio.. E’ di marmo bianco, poi giallo e rosso. In punta c’è uno spicchio di luna bianca con sopra un sole giallo. Simbolo di integrazione tra diversi. All’interno del monastero SHASHUR MONASTERY, ci sono mille bandierine mosse dal vento ( in questo modo le preghiere scritte si muovono, facendo si che il buddista preghi sempre). Il tempio buddista e’ simile a quello hindu, in più c’è un tamburo. Si gira intorno al tempio in senso orario, in più si girano dei cilindri placcati d’oro. Bello. Il tempio /gompa/ e’ tutto rosso giallo verde blu e bianco, più il buddha arancione. Una vecchina alta un metro, gobba compresa, ci ha spiegato un sacco di cose, bellisssimissimo.
Ho dormito in questa stanza comunitaria senza riposare granché per il continuo via vai.. ma va bene così.
Il giorno successivo ho viaggiato quindici ore, tra panorami molto meno interessanti del giorno precedente.. segnalo solo ghiaia grigia e roccia color terra battuta bagnata. Un francese tutto geologo diceva che erano i sedimenti di lava fuoriuscita migliaia d’anni fa.. Il Ladakh desertico ha fatto la sua comparsa, imperiosa.
Sono con due israeliani, da domani inizio a girare i monasteri ed il Ladakh. Sono contento.

LEH I
Arrivo a Leh il 31 luglio, stanco. Quindici ore di autobus per percorrere 300 km sono indicativi della condizione viaria, a cui per altro si contrappone lo spettacolare panorama che appare più adatto se goduto al rallentatore. Ho fatto amicizia con due israeliani (chiunque qui e' israeliano, con una buona comunità francese): Avi e Amit, diversi e lontani da me anche se Amit sembra la reincarnazione del batterista dei Pink floyd, e studierà computer science a Duisburg.. mah.
Gli israeliani, purtroppo, hanno tre anni di servizio di leva obbligatorio; poi, quasi tutti, vengono in India a rilassarsi: ma nel loro pensare l'esercito e' ancora parte integrante della giornata. Condivido con loro una stanza e, soprattutto, li convinco a partire per un trekking di qualche giorno attraverso il Ladakh, regione di cui mi sono innamorato, per visitarne i gompa, monasteri buddisti. Leh in se e' un disastro: c'e' una moschea, un cimitero, un city palace ed un nuovo gompa carini, ma niente di imprescindibile. Interessante che sulla moschea svetti la bandiera pakistana ( siamo in kashmir e l'esercito e' presenza palpabilissima anche se non invasiva). In realtà scopro comune situazione questa: risulta essere la bandiera islamica, prima che pakistana. Partiamo dunque per i monasteri, non prima di aver però comprato le bandierine tibetane, una collana in ossa di yak, animale fondamentale per l'agricoltura, ed una per Shiva. Considerazione sui monaci di Leh: i giovani sono da copertina di qualsiasi libro sulla globalizzazione; vestito rosso classico e maglietta arancione di eminem.. odiuu.
Dunque.. prima destinazione Hemis: chiediamo qual è il bus che ci va, e, pieni di buona volontà campeggiatrice, partiamo. Il viaggio pare più lungo del previsto ed, in effetti, ci rendiamo conto di aver sbagliato bus e di aver preso si il bus per Hemis, ma per Hemis Shukpachan.. nevermind.
Il bus e' d'antologia: musica tibetana con casse a pallettone, scritte che dicono:

“life is a river cross it
life is a duty perform it
life is a joke, enjoy it
life is happiness!”

Quindi l'errore viene messo da parte e ci concentriamo sul dare forma al nostro andare in questa fake Hemis. Il panorama e' sensazionale, nel viaggio ci sono queste oasi verdi ricavate dalla montagna rocciosa, opera dei Ladakhi e della loro economia autarchica. Fermiamo la prima notte a Hemis, ceniamo all'interno di una tipica casa ladakha dove tutta la famiglia e' riunita e cucina per noi. Ambiente intimista con collezione di pentole e tazze ladakhi, simili alle tibetane. Dopo cena cerchiamo di campeggiare a sbaffo, ma non e' permesso.. Ecoturismo, vabeh. allora tre uomini in una tenda da due si prodigano in parole su Israele e l'Italia, sul Ladakh ed il Kashmir, sulla Spiti valley etc. La tenda e' onestamente piccola per tre, ma si rivelerà utile perché farà un freddo cane, e come cuccioli ci scalderemo stando vicini. Prima di dormire vedrò il più bel cielo stellato della mia vita, si nota pure la polvere di stelle, miliardi di stelle, un sacco cadenti, un sacco di desideri.Il mattino scopriamo che vicino alla fake Hemis c'è Alchi, un monastero perso tra i monti raggiungibile solo con una buona camminata. Iniziamo il nostro andare, prendiamo la via sbagliata ma grazie ad un passaggio dato da un camionista musulmano arriviamo nelle vicinanze di Alchi. Curiosità, quando il camionista capisce che sono israeliani quasi si arrabbia. ma i giovani sono sagaci e gli buttano li un “ALLAH HUA AKBAR”, e lui e' contento. poi noto che ha un cuore luccicante con scritto love dentro il camion glielo mostro e sorride.. tutto bene, Jihad evitata.
Incontriamo Tal, una ventottenne israeliana interessante, che resterà con noi mentre avi se ne torna a Leh. Il monastero e' carino, ma non eccezionale, ma le viste che mi sono goduto raggiungendolo a piedi, quelle si, resteranno indelebili. I colori nel monastero adornato da Buddha altissimi e millenari sono il rosso, il verde, il blu, il bianco ed il giallo (colori sacri buddisti),l'arancio della tunica. Al tramonto la luce del sole scalda l'ocra della roccia, rendendo la vista unica, regalo indimenticabile.
Amit e Tal sono sorridenti, ne avevo bisogno. Una serata di belle chiacchiere viene falcidiata da una compagnia di italiani, in collaborazione con un bar vicino che mette musica improponibile anni ottanta. Al sentire la musica questi escono dalle loro guest house gridando “E' qui la festa?” Aiutooo! scappo. Loro fanno cerchio e cercano di ballare.
Il mattino successivo brunch con fornello e Shakshuka, piatto tipico israeliano a base di soffritto, pomodori e uova. bucolicissimo immersi nella natura vicino l'Indo.
Destinazione successiva Shei, dove c'e' un altro monastero, molto molto carino. Mi metto in un angolo e osservo le donne in preghiera. Queste “mantrano” distese, si rialzano, si ristendono, girando intorno al Buddha, rigorosamente in senso orario. Il mantra che recitano e' dedicato all'enlighted Buddha, perché mostri loro la via. Lo si recita tutti i giorni, a tutte le ore: “Ohm Mane Padme Um”, che significa "salute o gioiello nel fiore di loto". Terminata la preghiera ho avuto l'accortezza di chiedere queste cose: sono sempre più per un approccio antropologo come scelta di vita.
Da Shey, passeggiando, andiamo verso Thikse, otto facili chilometri. Il monastero di Thikse è veramente abbarbicato sulla roccia; intorno, poi. e' nato il villaggio, come da noi, intorno alla chiesa, la piazza. Il gompa e' magnifico, diverse stanze: in una un Buddha appena restaurato, in un altra vari Buddha in posizioni diverse; ci sono poi la stanza della preghiera e quella della salvezza. Chiedo ad un monaco cosa sono le tazze d'acqua poste di fronte al Buddha. Lui mi prende sotto braccio, mi guarda, con i soliti occhi di chi e' immerso religiosamente, e mi dice: holy water., usata poi per la puja.
Muoviamo da Thikse a Hemis vera, facendo autostop, un camionista Sikh troppo simpatico ci porta in giro per un sacco e non ci chiede niente. Bello. ci lascia a 7 km dal gompa. L'oscurità si avvicina e non abbiamo idea di dove andare.. siamo nel mezzo del mandala circondati da chorten, o sputa, rappresentazione dell'unicità nel buddismo. Grazie alle indicazioni di un local troviamo la strada.. passo la serata a chiacchierare nell'unico bar pieno di vecchietti che bevono Ram, bevanda a base di whisky, allungata con un po' d'acqua. Tutti sono un po' brilli; ci concentriamo sui più giovani che ci danno lezione di ladakhi.. e' bellissimo. ricordatevi la parola Jolee, significa: ciao, arrivederci, grazie e prego.. utile no? sintesi linguistica.
Una famiglia ladakhi ci ospita, 25rs a testa e passiamo la notte nella stanza dei tappeti, tipica stanza ladakhi per gli ospiti, ricoperta, letti compresi, da tappeti. I muri sono, invece, ricoperti dalle foto della famiglia ed in particolare della nonna (rispetto). Molte foto sono fotomontaggi con paesaggi verdissimi dietro, si vede che gli otto mesi d'inverno si fanno sentire a livello subconscio. La porta della casa da ad est perché porta bene. Il mattino alle sei andiamo al monastero a seguire le preghiere: i lama (monaci) arrivano alla spicciolata, pochi adulti e molti bimbi; la preghiera e' recitata dai due monaci più anziani, posti uno di fronte all'altro. Avi mi fa notare che i bimbi non ci stanno dentro, giocano chiacchierano e se le danno di santa ragione, come tutti i bimbi del mondo. Dopo un paio d'ore rimango solo, tutti stanchi della ripetitività della preghiera. Ma i cari compagni di viaggio fanno male ad andarsene: così facendo, infatti, si sono persi la puja al Buddha dalle sembianze cinesi: acqua, pane tibetano, incenso e fuoco.. molto affascinante. C'era pure una coppietta di italiani, lei registrava perché sta facendo una tesi in musicologia sulle preghiere buddiste (Dams Bologna). La preghiera finisce ed i bimbi scappano dalla stanza come da una classe a ricreazione. Nico scende piano le scale che lo riportano alla famiglia ladakhi, previo passaggio per l'altrettanto tipica toeletta. Costruiscono una stanza in mattoni di fango, come le case per altro, pavimento di terra, buco in mezzo e via cacata all'indiana. Molto intelligentemente però, sotto il buco tutto il letame viene raccolto, una volta l'anno, ed utilizzato come fertilizzante. Ma non puzza perché sotto e' pieno di cenere che copre gli odori.. Furbi eh? i ladakhi non hanno spazzatura, riutilizzano tutto, anche se, purtroppo, oggigiorno ciò avviene sempre più di rado. Comunque, torno nella cucina, il luogo per eccellenza della cultura ladakhi, adornato da tazze e pentole. Nonna, figli, figlie e nipoti, tutti passano il tempo lì, cucinando ed aiutandosi. Qui ci si ritrova per chiacchierare e, solo d'inverno, per raccontare favole (altrimenti si impegna tempo da dedicare al lavoro, d'estate). C'e' pure un gatto che di nome fa Billi: voi direte l'occidente e' arrivato, e invece no.. “Billi” e' “gatto” in ladakhi. Preparano il chapati (teki in ladakho) e il chai che però non e' milk tea. Prendono delle foglie di tè verde, le bollono per un ora con sale e soda, poi aggiungono burro, versano il tutto in un contenitore cilindrico chiamato gurgur (onomatopeuticamente dal suono che produce sbattendolo). Lo sbattono appunto, con un arnese di legno ed ecco pronto il Soldja, il tè tibetano, salato e burrato. Non mi e' piaciuto tantissimo, ma se pensate all'utilità dei sali dopo una giornata di lavoro e alle labbra sempre screpolate bagnate dal burro assume una sua logica. Pare che il burro prima di essere utilizzato venga conservato in pelle di capra per un paio di mesi.
Si riparte...jalla! che sarebbe bene, buono, ok! ci si saluta felici.
I paesaggi che ho visto sono nei miei occhi e, spero nelle foto.


LASCIO LEH
Tornati dai monasteri inizia il vero e proprio trekking attraverso il Ladakh: quattro giornate speciali con Amit. Due uomini, una tenda, il deserto roccioso ladakho, riso e dal, noodles e chai.
Partiamo dal gompa di Spitok, carino, nella periferia di Leh contornata da basi militari, direzione Jinchang. Il nostro andare incoccia nel parco nazionale ladakho e allora 60 rupie si lasciano anche volentieri. Poi, se moriremo, sanno che non ci troveranno mai ma i nostri corpi riposeranno tra queste montagne. Il cammino prevede 22km, non difficilissimi: ma noi, furbi, usciamo dal sentiero sicuri di aver trovato una scorciatoia. Cinque ore cinque di arrampicata per capire di aver ciccato completamente la via.
Avremmo dovuto seguire il proverbio ladakho LHAMO KHYONG LHAMO KHYONG YALE KHYONG LHAMO LE: make it easy, easy it does..
Anime desolate riprendiamo il cammino e grazia vuole ( Jah, Vishnu protettore, Jesus, Abrahm, Allah o culo..) che si trovi un ladakho gentile. Ci da un passaggio per mezzora buona (figuratevi dove eravamo) verso Jinchang senza chiedere nulla e offrendoci pure due banane, mai frutto fu così gradito. Rinvigoriti pranziamo a basmati e dal grazie al superfornello al cherosene di Amit ( che significa senza fine). Raggiungiamo Jinchang e decidiamo, prodi, di spingerci fino a Rumback, due ore di cammino più avanti. Sono quasi le sei e un paio d'ore di luce dovrebbero essere assicurate. Inizia a piovere, che fare che fare, non si molla, si barcolla ma non si molla. Dopo un ora e mezza, al primo spiazzo di ghiaia , grande esattamente come la roccia, dopo 12 ore di roccia, ci accampiamo, risparmiando pure sul campeggio.
Panorama: siamo in una valle tra due catene rocciose, ruscello quasi fiume - acqua squisita -, 4000m d'altezza e non sentirli.
Non avere idea di dove ci si trovi, ma essere tranquilli come non mai.. shanti shanti. Tutto e' esplorativo ma protettivo. Non avere idea di dove ci si trovi, ma avere ben chiaro in testa a cosa si pensa, a chi si pensa ...
Il mattino riprendiamo presto il cammino verso Rumback, raggiunta velocemente. Da ora in poi capisco che questi villaggi segnati sulla cartina non esistono; sono solo un cartello con il rispettivo nome, segnale che il nostro tragitto e' adatto ai turisti che bisognano di punti di riferimento. Ci incamminiamo veloci verso Yurutse -una casa-, pausa chai e doccia al ruscello contornati da ladakhi uomini che lavano i panni. Non c'e' differenza di sessi nella società tradizionale ladakha, tutti fanno tutto. Il sentiero inizia a salire e si sente; Amit e' molto stanco e me ne accorgo quando voltandomi non lo vedo e prima di scorger la sagoma mi passa una vita e mezza davanti agli occhi. Incrociamo un gruppo di giovani danesi, troppo in viaggio organizzato, con i cavalli che gli portano zaini e tenda.. ma valah.. Iniziamo la salita che ci porterà alla nostra vetta Ganda La (la = passo). Nella via incrocio un pettirosso dal petto arancio shivaita, teschi di animali lasciati a motivo propiziatorio vicino alla stupa, ed un sacco di lucertole che paiono aver preso il posto dei cani nell'accompagnarmi nel peregrinare..forma corporis di altra forma mentis.
Ganda La sono 5000m tondi, raggiunti tranquilli, un po' meno per Amit. Tutto mi risulta semplice perché ascolto Patrice. Ho un 5000 alle spalle, bene. Ogni passo e' segnato da uno stupa. Le bandierine che riflettono le preghiere buddiste non vengono sostituite, ma lasciate a consumare, così che la preghiera venga trasportata dal vento ovunque. Paesaggi fantasmagorici, onnipresente roccia tra bandierine tibetane, sorprendente verde, rosso. bandierina gialla per terra che raccolgo e conservo. Ci godiamo il tutto con un ristoratore chai, assaporando silenzi che solo certe alture possono regalare. La discesa verso Shingu.. che discesa. Un oretta veloce, ma con quale intensità. Rimetto le cuffie e a random capita COHIBA di Silvestri ( chi non la conosce apra subito una finestra e se la scarichi). Il caro Silvestri che canta di pensieri diversi che vanno dall’Africa alle Ande; il me medesimo che si immagina tra le Ande, in pieno "movimento", incaricato di portare nuove ai compagni sui porci e le loro baie. (scusate shanti)
Ho le lacrime agli occhi dal freddo, come un Alex, sempre in girardenga spinta, che scende veloce i colli salutando Aidi. Altrettanto veloce li sale, ma se lui sale verso Aidi, io dove sto andando? -ennesima citazione briziana, me ne scuso.
C'accampiamo in una graziosa piazzetta, una ladakha cerca di spillarci 50piselli che diverranno 10rs, mentre noi allegri, in compagnia del marito che se la ride, ci beviamo un black tea che il buon ladakho non disdegna (apertura al nuovo). Mi addormento leggendo il libro sul Ladakh, cultura che davvero mi sembra interessante. Il giorno dopo in cinque ore siamo a Chilling, termine del nostro trekking, dove l'indomani si prenderà il bus per l'ultimo ritorno a Leh. Un problema sorge quando, in vista del villaggio, ci rendiamo conto, insieme a tre francesi sul luogo da un pò, che non c'è modo di attraversare il fiume Zanskar,una specie di Piave fangoso e pieno di rapide. L'unica via è una carrucola, peccato sia bloccata dall'altro lato. Il prode Amit decide di attraversare il fiume a penzoloni sul filo metallico per sbloccare la carrucola. La mia perplessità è tanta, ed infatti, dopo 10m molla distrutto. Inizio a parlare al fiume (si sono pazzo) e gli spiego che, insomma, in qualche modo dovremo pure attraversarlo, e allora io mi ci calerei anche dentro e nuotando lo attraverserei: tutto pronto, Nico e il fiume. Faccio per spogliarmi, quando una voce mi richiama. Entra in scena l'omino carrucola; contattato dal francese è li pronto a farci attraversare lo Zanskar per la modicissima cifra di 150 rs a testa.. una truffa che riusciamo a limitare a 120rs. Amit salvo, Nico salvo, francesi salvi, omino carrucola ricco corre veloce a bersi i guadagni. Lo raggiungiamo al bar dove, in compagnia di amici, passa il pomeriggio a giocare al biliardo indiano (si colpiscono con le mani delle fish, come con le biglie; il tutto in un tavolo che sarà un metro quadrato). E' bello giocare con i locals e perdere miseramente. Arriva pure una moglie a richiamare il marito che ha un po’ esagerati con l’alcool. Qui scatta l'antropologia: nella società tradizionale ladakha non esiste lo scontro, il diverbio. Qui la donna grida e l'uomo, macho per influenza di cinema h/bolliwoodiano, non le rivolge nemmeno la parola. Chiara reazione vista la presenza degli amici; qualsiasi altro comportamento lo avrebbe fatto apparire debole. Peccato che, un secondo dopo la donna se ne sia andata, l'uomo si accigli, probabilmente pensando a quello che l'aspetta una volta rientrato a casa. Tutti gli uomini del villaggio bevono, pure gli anziani vestiti nell'abito tradizionale, una specie di coperta in lana viola avvolta a vestito e bloccata con una stringa arancio. Birra e Ram. Si fa sera, si campeggia vicino al fiume su un prato verde. Mentre scrivo su una roccia che dà al fiume, avvolto da una coperta viola a righe gialle e arancio, i miei occhi vedono l'acqua Lhu grigia e impetuosa, la terra Sadak e' spiaggia che mi fa correre i pensieri a Sandonà e voi tutti jesolani d’ agosto. La roccia scheggiata dal vento, che mi fa pensare, il verde, il viola dei fiori, l'arancio della tenda, il tramonto. Mangio albicocche prese dagli alberi (albicocca che qui abbonda) con Amit, bucolico. Mi distendo, riposo, momento realmente onnicomprensivo.
Ci sono attimi che creano pensieri vorresti condividere, per rendere quelle sensazioni uniche ed eterne. Ma le persone con cui vorresti vivere questi attimi sono lontane o vicine ma lontanissime. Allora ve li scrivo.
Il mattino dopo verso mezzogiorno aspettiamo il bus che arriverà alle due. Il tempo indiano, il tempo ladakho. Mi sono scritto alcune espressioni che utilizzano per decidere quando incontrarsi:
GONGROT da dopo il tramonto a quando si va a dormire
NYITSE quando il sole e' sul picco della montagna
CHIPE-CHIRRIT "canzone dell'uccello" per indicare quel momento della giornata prima dell'alba quando gli uccelli cantano.
Torniamo a Leh, saluto Amit calorosamente, ognuno per la sua strada felici di esserci incrociati,. Vado a vedere il film documentario sul Ladakh, preso dal libro che ho finito di leggere (molto meglio questo ultimo se paragonato al film da cui è tratto), discussione stimolante. Mezza idea per una ricerca su come, le culture locali ladakhe, possano essere esempio di preservazione dell'economia naturale con aiuti come l'energia solare (sostenibili).
Magari, se mi prendono a Pavia, faccio la mia ricerca sul confronto tra ladakhi e qualche popolazione autoctona sudamericana.. Idee idee a me.
Incrocio gli occhi di Chiara.
Non ho guest house, bus alle quattro a.m. per Manali. Che fare? tutto si risolve naturalmente, incontro Or (luce), israeliana conosciuta a Leh, passo la serata con lei ed il suo amico tibetano. non dormo e parto per Manali via Keylong. Il cammino dalla guest house alla bus station è di una ventina di minuti, al buio perché non c'è elettricità e mi finiscono le batterie della pila. Al mio passaggio in fronte alla moschea, esattamente al mio passaggio, squillano gli altoparlanti.. ALLAHHHHHHHHH.. inizia la preghiera le cui sonorità m'accompagneranno sin fuori dalla città.. speriamo funga da augurio, protezione.
Lascio Leh dopo due settimane intensissime: ho alcune idee più chiare in testa, certe non proprio. Sicuramente il Ladakh e' un nuovo interesse.

Questa mail e' scritta da Manali, domani parto per Kullu destinazione Parvati Valley, qualche giorno lì e poi Dharamsala (dove risiede il Dalai lama, che in questi giorni è in viaggio, ed il governo tibetano in esilio).


PARVATI VALLEY E DHARAMSALA: I COLORI DELLO SPIRITO
Lascio Leh. Due giorni di viaggio mi portano a Manali dove passo una piacevole giornata raccogliendo mele dall’albero della guest house e riscoprendo il gusto del frutto peccaminoso. Muovo per Kullu il giorno successivo, dove incontro Elin, trainee svedese, per il nostro programmato viaggio di due settimane che ci ha portati in Parvati Valley ( Manikaran, Pulga e Tosh), Dharamsala e Varanasi.
Helin e' una bella e dolce ragazza svedese che ha lavorato a Jaipur in una n go, anche lei concentrandosi sull'HIV e sull'educazione sanitaria dei piu' piccoli.
Raggiungiamo Manikaran a ferragosto, mentre voi mangiate fiorentine in spiaggia o a casa di gio. I 15 corrisponde anche al giorno dell'indipendenza indiana, qui ben poco celebrato. Manikaran e' un paesello tra i monti, caratterizzato da bellissime case antiche, ed un sacco di turismo indiano, in particolare Sikh, vista la presenza di un notevole gurdwara (tempio sikh). All’interno del gurdwara viene servito cibo, chai e si può trovare un letto, tutto gratuitamente perché questo fa parte della missione dei Sikh. Inoltre ci si può lavare nelle hot spring, che sono sacrissime perché scoperte da Guru Nanak nel cinquecento. Lo stesso e' il fondatore del sikhismo, ecco spiegata la santità del luogo. Chiaramente mangio, chiaramente mi bagno nelle acque sacre, chiaramente cerco un posto per dormire, ma e' tutto pieno. Peccato. La mia metamorfosi Sikh e' completa una volta indossato il turbante, la barba, per quanto a me e' concesso, ce l'ho già da tempo.
Lasciamo felici e con lo stomaco pieno Manikaran, per dirigerci verso Tosh, via Barshani. Tosh e’ un cumulo di case abbarbicate tra i monti, si arriva a Barshani e poi si arrampica per un’ora uno stretto sentiero. Belle cascate, il villaggio e’ pieno di tradizione anche se gli israeliani iniziano a deturpare. Sono fortunato e, come a Vashisht, mi trovo nel villaggio in corrispondenza delle celebrazioni per il Dio locale, portato a spalle da Barshani. Celebrazioni colorate e ritmate da tamburi e corni. La vista dalla nostra stanza, larga come i due letti con una candela ed un tavolino, e’ spettacolare. La valle si apre davanti a noi maestosa, verdissima. Il pensiero di trasferirmi qui c’e’. Tosh al mattino e’ bellissima, un villaggio vero con tutti i riti che lo caratterizzano. La vacca scorrazza per la guest house, la gangia cresce dappertutto, la gente veste cappelli e costumi locali. Si passeggia tra le valli e le montagne, qui siamo sui 2500m, mangiamo spesso nella guest house che regala un fried rice mushroom da antologia, il tutto illuminato solo da una candela perché l’elettricità non c’e’. L’unica pecca di queste giornate sara’ il tempo inclemente, nonostante indimenticabili sprazzi di sole e relative vedute. Camminiamo fino a Pulga, un’oretta e mezza passando attraverso una diga in costruzione dove ti avvertono delle quotidiane deflagrazioni alle 7am e alle 5 pm. Pulga e’ bella, un sacco di locals, bei colori, fiori gialli e viola.
La prossima destinazione e’ Dharamsala, raggiunta con un night bus che, vassapè, arriva con cinque ore cinque d’anticipo, lasciandoci in una stazione deserta alle tre del mattino. Insieme ad un americano, recuperiamo un taxi che ci porta a McLeod Ganj, dove passeremo quattro giornate. Vista l’ora non ci sono guest house aperte, decidiamo dunque di fare di un marciapiede la nostra magione, accompagnati da una decina di cani che dormicchiano con noi. Aspettiamo l’alba, il tutto è molto piacevole. Troviamo poi una stanza molto umida, azzurra come la mia a Jaipur. McLeod Ganj e’ la sede del governo esule tibetano, un sacco di monaci (consapevoli, vengo da tutta l’india a studiare qui) e turisti, che per una volta non rovinano il contesto, apparendo piuttosto consapevoli. Le giornate trascorrono tra chai, passeggiate (che panorami!), ore trascorse in libreria a leggere e comprare libri sul Tibet ( e, come in camera a sandonà, non ho più spazio per i libri nello zaino), visite a musei e gompa. Una sera andiamo ad un concerto di sitar e tablas che forse mi cambierà la vita, riportandomi al Nehru Centre a Londra, e facendomi decidere di prendere lezioni di Sitar a Varanasi. Un’altra sera guardiamo la fabbrica di Willi Wonka in un cinemino che si trova nel retro di un ristorante, atmosfera bohemienne con cinque spettatori, come quando a Trieste andavo a godermi film del genere “Il ritorno” o “Primavera Estate Autunno Inverno e poi di nuovo Primavera”. A Dharamsala visitiamo la sede del governo esule tibetano, struttura architettonica oscena, ma c’e’ un bel gompa e un interessante museo dove e’ allestita una temporanea su Gandhiji che mi fa brillare gli occhi. Ho il piacere di guardare un documentario ben girato sulla tragedia tibetana legata all’annessione cinese negli anni cinquanta. Prego ciascuno di voi di leggere qualcosa sull’argomento, scandaloso: c’e il chiaro tentativo di distruggere, cancellare una cultura ancor prima di una nazione. Non ho seguito alcun corso di meditazione, forse valeva la pena fermarsi di più, ma la spinta verso Varanasi e’ forte.


VARANASI I
Lasciata Dharamsala in direzione di Varanasi, si decide di non tralasciare Amritsar, capitale del Punjab indiano e ancor più la città sacra per i Sikh, i simpatici barboni con il turbante, il pugnale, il pettinino, la mutanda specifica ed il bracciale d’argento. In questa città, infatti, e’ presente il Golden Temple, così chiamato perché realmente ricoperto d’oro, all’interno del quale e’ custodito Guru Granth, il libro sacro dei Sikh, scritto da Guru Nanak, fondatore del movimento. Il Golden Temple e’ meraviglioso, soprattutto al calar del sole e all’alba. Il tempio e’ immerso in un laghetto artificiale, immaginate lo spettacolo di luci riflesse sull’acqua. Anche qui, come a Manikaran ed in tutti i Gurdwara Sikh, è permesso dormire e cibarsi gratuitamente; questa volta la fortuna ci fa trovare due letti nel dormitorio, così passiamo la notte dentro le mura del tempio. E’ anche possibile dormire sulle rive del lago, mirando il tempio, che spettacolo! Verso le 10pm il libro sacro viene portato fuori dal tempio, con una cerimonia che sa tanto d’ortodossia, con i Sikh che lo sostengono e pregano a squarcia gola. Passo la serata a chiacchierare con dei giovani Sikh del Punjab pakistano che ogni settimana vengono in India al tempio, e ogni volta devono fare il visto giornaliero per le risapute tensioni tra India e Pakistan. Pensate che scomodità tremenda.
La politica su tutto.
Note negative di Amritsar sono state due: il delirio globalizzante che vede la coca-cola aver comprato i diritti per vendere solo le sue bibite dentro il comprensorio del tempio – boycott! – e la città in sé, molto inquinata e grigia. Così, il giorno successivo, si decide di ripartire, finalmente Varanasi.
Con un treno che collega le due città attraverso l’India del Nord, 1100 km, 24 ore e 7 euro di biglietto, raggiungiamo Varanasi, o Benares come si preferisce chiamarla. Il viaggio con Elin e’ allietato dalla presenza di due vecchini che pesano 30 kg e hanno almeno 120 anni, o forse 50; per tutto il viaggio mangiano polpette di verdure, e ci fanno gran discorsi in hindi di cui in un modo o nell’altro afferro il senso: si esprimono a proposito della perdita di valori, di questi giovani che vogliono essere come gli americani etc.etc. Due vecchini vispi, bene.
La città ha un milione e mezzo d’abitanti, si sentono tutti e sembrano pure molti di più. Un sacco di gente, come sempre, ti approccia alla stazione promettendoti mare e monti; sapendolo, ho prenotato una guest house e me la sbrigo facilmente. Sono, però, punito per aver provato una volta ad organizzare qualcosa e a non farmi spingere dal vento. La guest house e’ il peggio del peggio dell’occidente: burgers, musica anni ottanta, inizio novanta, un sacco di giovani che passano la serata a bere pepsi e a mangiare schifezze. E costa pure un sacco. La sera stessa ci incamminiamo alla ricerca di un luogo più vicino a noi, e troviamo un sorriso, una donna ci accoglie nella sua guest house, chiamata Shiva. Sorpresi? Non troppo spero, ormai Shiva mi ha adottato e mi protegge, in più Varanasi è la città a lui consacrata e, nella circostanza, e’ anche il nome del padrone della GH. Varanasi è città sacrissima, dove si viene a morire perché qui si rinascerà con un karma migliore; c’e’ un golden temple anche qui, vietatissimo ai non hindu e sorvegliato da centinaia di poliziotti, come sempre in india, armati di fucile. La zona e’ fragrante religiosamente, hindu musulmani e cristiani in un fazzoletto, un sacco d’ortodossi, qui si.. i sadhu incutono rispetto e fanno vita da eremiti. Bisogna fare un po’ d’attenzione quando si e’ vicini ai luoghi sacri, non toccare nulla altrimenti i fedeli si infastidiscono. Venerdì scorso, giorno di preghiera musulmana alla moschea e’ successo un patatrac. I poliziotti, come da dovere, perquisiscono chiunque per controllare non porti armi o esplosivi nei luoghi sacri. E’ successo che hanno chiesto ad una figura di spicco musulmana d’essere perquisito, questo si e’ rifiutato perché ha ritenuto irrispettosa la richiesta. Subito un sacco di poliziotti sono arrivati, un sacco di musulmani a difendere la loro guida.. e così sono scoppiati duri scontri durati tutta la giornata con moto bruciate e danni materiali ingenti. Il tutto, ovviamente, nel mezzo del mercato del mio quartiere. Pensavo di aver già vissuto l’ortodossia a Londra in zone come Aldgate, ma questa situazione ridimensiona la mia precedente esperienza.
Qualsiasi ortodossia m’appare ogni giorno più pericolosa.

La città e’ piena di vacche in gran forma ( a città sacra corrisponde vacca sacra che quindi riceve cibo in abbondanza ) che lasciano scie di cacate sostanziali dappertutto. L’elettricità, a Varanasi, e’ un pò così: dalle 9am alle 3pm non c’è, mai. Il resto della giornata inchallah! Dopo il tramonto, quindi, trovare la strada di casa è un’avventura caratterizzata da bui vicoli, sandali che si immergono in profluvi di verdi cacate, incontri/scontri con le scimmie, altro animale che riempie le vie della città, e i suoi tetti in particolare. Nella GH siamo noi in gabbia, le scimmie libere intorno a noi dominano, apparentemente statiche, per poi fiorire in un atteso dinamismo che comunque impressiona. Ci sono delle cose che m’affascinano molto, e altre che riescono ad irritarmi.
Camminare per le vie strette del Chow, il mio quartiere, di giorno, con il sole che batte a 45 gradi, accerchiato da un numero sempre crescente di individui che hanno sempre un’offerta specialissima solo per te: “ I was waiting only for you”, tutto questo è estremamente stressante, rischio ripetute volte di perdere la mia karmica non violenza ma resisto, pensando a come Paolino impazzirebbe, Gio si chiuderebbe in uno stanzino a disegnare e Pippo e Schilla in un cyber café a scaricare.
Invece, camminare per le vie dopo l’oscurità, ma prima che se ne vada l’elettricità, è qualcosa di fantastico. Mi riferisco ai vicoli che disegnano questa città, caratterizzata nella sua parte più vecchia ( non posso dire antica perché non lo è, distrutta come è stata dai musulmani e ricostruita solo qualche secolo fa ) da vie strette e intricate, a misura di pedone e di vacca. Ci sono una miriade di templi, ricavati ovunque, perfino dalle piastrelle: ce ne sono tre nei dieci metri che portano dalla via principale alla mia GH. Il sacro si respira, insieme agli olezzi di vacca e di piscio, dato il costume di coricarsi a gambe aperte e dare libero sfogo alla vescica. Bisogna tornare alla GH prima che la luce se ne vada, altrimenti succede che, lasciata una dhaba dove si e’ assaporato un ottimo thali, sovra pensiero, si imbocchi la via sbagliata e si finisca fisicamente dentro la casa di estranei intenti a preparare chapati. Bella una strada che finisce in un salotto: scuse del caso e, a fatica, si ritrova la via di casa. Come è a discrezione divina l’elettricità, è, invece, costante il risuonare delle preghiere musulmane; affascinante ascoltare le casse che dalle moschee diffondono la parola di Maometto nella città. Come è costante, al calar del sole, l’offerta ai templi hindu, con le campane che pervadono per ore la città, e poi, improvviso, il silenzio. E’ stranissimo, ma mi piace parecchio questa calcolata imprevedibilità.
Una sera sono stato al ghat dove si compie il rito della puja. I ghat sono le scale che dalle vie della città portano alla madre Ganga. Quando arriviamo sono allagati, ma negli ultimi giorni del mio stare sono sostanzialmente percorribili, ed e’ uno spettacolo enorme. La celebrazione della puja (ogni giorno si accendono lumini raccolti in delle foglie che vengono lasciate andare al fiume, perché ne realizzi i desideri, o per alcuni, come i numerosissimi turisti, perché ciuoé ho troppo fatto la puja nella Ganga ciuoé) dura almeno un ora, danze ritmate, offerte, musica, incenso, colori, partecipazione corale con battito di mani. Se non ci fossero i turisti sarebbe vero.

Shiva, il signore della GH, è giovane e sorridente, come la sorella che dice d’essere una gran cuoca ma lascia un pò a desiderare a parte un veg burger alto 10cm, vari pancake ed un lemon tea notevole. E’ confortante chiacchierare con loro; Shiva mi spiega come la musica e l’idioma siano diventati tutto un business a Varanasi ed, effettivamente, ci sono scuole in numero quasi uguale ai templi ormai. Cosi mi consiglia il suo Guruji, un priest di un tempio shivaita a qualche minuto dalla GH. Questo perché, spesso, il “maestro” non e’ altro che uno studente che dopo un paio d’anni, per guadagnare a scapito di inconsapevoli turisti, inizia ad insegnare. Per permettersi di insegnare il sitar, veramente, ci vogliono almeno una quindicina d’anni di pratica alle spalle. E allora ecco il Guru, quarant’anni d’insegnamento e non sentirli, se non per la pelata in testa ed una pancia da pascià. Per i cinque giorni in cui starà con me prima di tornare in Svezia, Elin prenderà lezioni di tablas, comprandole pure ( fortunatissima, ha un amico laureato in musica /tablas/ così avrà lezioni gratuite!). Personalmente avevo scelto il sitar sin dalle serate passate al Nehru Centre a seguire i concerti di tabla e sitar, e dalle susseguenti chiacchierate e chai con gli artisti discutendo quanto amino lo strumento.
E così la mia avventura di musicante da strapazzo ha inizio un giovedì di un torrido agosto del verano 2005, in una splendida Varanasi. Vengo introdotto al guruji da Shiva, prendo lezioni in una stanza ricavata all’interno del tempio. Come sottofondo alla musica c’è il costante scampanare dei fedeli! Un sogno, mi pizzico numerose volte. Guruji, all’anagrafe Chuni Lal Pandyi, veste solo di un drappo arancione intorno alla vita. Sono in un tempio di Shiva ascoltando un priest hindu che mi introduce allo strumento che ha segnato la sua vita e quella di migliaia di persone in questa raffinata cultura. Mi rendo subito conto che mi serve un sitar per praticare in futuro, e così decido per l’investimento: alla fine tra lezioni, sitar, corde e porta sitar in pelle saranno 200 euro. Probabilmente in Italia sarà sui 1000 euro. Credo sarà lo strumento della mia vita, e’ una sensazione entusiasmante “sentire” uno strumento. E lo sento.
Le lezioni sono il rito della mattina, Elin dalle 9 alle 10 e io a seguire. Quando arrivo guruji fa preparare il chai, così prima di iniziare si chiacchiera un pò allegramente: come sviluppare casa attraverso il quotidiano.
Torno il 10 settembre


VARANASI II
Altra esperienza forte è stata assistere alla cremazione dei corpi sulle rive della Ganga. Ovviamente il turista non è ben visto; ma, grazie ad un sincero indiano che vuole praticare l’inglese, possiamo vedere il tutto, senza disturbare e farci notare, da delle vie meno battute ma che danno una buona visuale complessiva. Osserviamo discreti: come detto, a Varanasi si viene a morire, ci sono persone che, ancor oggi, si lasciano morire sulle rive della Ganga con l’auspicio di migliorare il proprio karma e, secondo alcuni, addirittura di uscire dal cerchio delle reincarnazioni, raggiungendo dunque il dharma, la verità, fine ultimo delle esistenze dei devoti.Il fuoco che brucia è eterno, 24 ore su 24, da sempre per sempre. E’ una prospettiva piuttosto diversa dai nostri forni crematori: enormi ammassi di legna bruciano sulle rive della Ganga,e i defunti vengono portati a turno a bruciare. Il fuoco viene ricavato da un tempio di Shiva, dove c’è una fiamma sempre accesa. E’ impressionante. I corpi vengono lasciati tre ore, avvolti da lenzuola, nelle fiamme; ciò che resta viene poi gettato nel fiume, perché torni alla madre Ganga. L’amico indiano dice che le tre ore spesso non sono sufficienti a bruciare il torace degli uomini e le anche delle donne. Queste ossa, in particolare, perché pare siano quelle che si sviluppano maggiormente durante la vita nei diversi sessi (lavoro e parto). Comunque, completamente cremato o meno, il corpo viene ridato alle acque. C’è anche la possibilità che i cadaveri non vengano bruciati: questo, se non ricordo male, nel caso siano donne incinte, bimbi, sadhu e lebbrosi. Nei primi due casi la ragione è legata al fatto che il feto, come il bimbo, non sa distinguere bene e male quindi è necessario riaffidarlo così come è alla madre Ganga, i sadhu sono riveriti come rinuncianti, non fanno sesso e sono disinteressati al denaro, dunque non devono rinascere. Per i lebbrosi, invece, la questione è clinica: le ceneri potrebbero infettare le persone nelle vicinanze (domanda – invece il fiume in cui ogni giorno si lavano non viene infettato? Sgomento -). Alla cerimonia sono ammessi solo gli uomini; alle donne non è concesso assistere alla cremazione perché, specialmente nel caso sia il marito il defunto, ci sono stati casi in cui si sono lanciate nel fuoco per morire con il marito. Azione che fa parte della religione induista, è chiamata Sati, l’immolarsi: un tempo tali donne venivano apprezzate ed il loro sacrificio era utile al karma di tutta la famiglia. Ma oggi il tutto è vietato dalla legge. Altra domanda: e se a morire è un’amica? Non possono ugualmente assistere, perplessità.Su consiglio del guru prenoto una bagnarola per godere dell’alba successiva direttamente dal fiume. Alle cinque, incredibilmente puntuale, visto il mio aderire ormai appieno al sistema tempo indiano, mi presento al tempio ed un simpatico omino mi porta al ghat dove è ormeggiato il panfilo. Un due metri in legno con l’acqua che spunta in diversi punti all’interno: benissimo, tanto la Ganga è un ruscello.. timore. La barchetta tiene e l’alba riflessa sul fiume illumina la città: qualcosa di unico, puro. Provo la tipica sensazione per cui sei certo che il momento resterà a lungo inciso tra mente e cuore. I muri degli edifici, caratterizzati da mille crepe, riassumono vita attraverso il calore del colore. Respiro a fondo per assorbire quest’aria magica. Mi ritrovo immobile per un tempo indeterminato fissando la città che riprende vita, sono una vacca che governa la via, sono il senza tetto che chiede una rupia. Sono ormai quasi le sei del mattino, termina la crociera e mi dirigo al main ghat, dove ho il piacere di assistere ai riti mattutini degli indù. Il buon fedele al mattino deve recarsi al fiume, pregare il sacro mantra, immergersi tre volte completamente, bere un sorso d’acqua sacra, e poi è libero di iniziare la giornata: si lava i denti ( con l’acqua del fiume ?! ), va al lavoro o a cercare di riempire la giornata in modi e maniere più o meno suggestive. Uomini e donne vicine, ognuno immerso nella sua preghiera, nudi o quasi.
Raramente mattinata fu così piena, suggellata da un pancake al miele spettacolare.
In serata ammiro il tramonto dalla terrazza della GH: è un quinto piano aperto a 360° sulla città e sul fiume. Panorama notevole; la Ganga si distende imperiosa, regina indiscussa del luogo. Dall’altro lato edifici, che si ergono ormai incontrollati. Il cielo è riempito da elementi identificabili come uccelli a prima vista; si riveleranno essere, in realtà aquiloni! Migliaia d’aquiloni riempiono il cielo della città, dal mattino al tramonto. Ogni tetto pullula di bimbi e non, intenti a rilanciare con spinte imperiose il volo dell’aquilone. Che vada lontano e realizzi i loro sogni. Il sole è un’enorme palla, ad altezza d’uomo. E’ bassissimo, il tramonto di conseguenza dura qualche minuto. Speciale.
Visto l’acquisto del sitar, il budget si fa ancor più limitato: è un piacere dunque scoprire quali squisitezze la strada possa offrire per la ragionevolissima cifra di cinque rupie, contro le 40 per mangiare qualcosa in un ristorante. Ci si sazia con un paio di samosa e una focaccina a pranzo dal signore baffuto che mi fa mezza rupia di sconto, e un paio di polpette di patata ripiene di verdure ed una pasterella salata con una crema unica a cena dalla signora cicciona che simpatica non è, ma brava cuoca di certo si. Il tutto è cotto in enormi padelle il cui olio è d’oscura provenienza e d’altrettanto impatto visivo.
Ci sono alcuni personaggi che meritano qualche riga: uno è il responsabile di un’associazione per l’interculturalità, utilissima in un contesto tanto teso. Peccato che il soggetto trascorra la giornata seduto dietro un bancone posto in fronte alla porta d’entrata, fissando vuoto la vita che lo circonda. Un approccio di statica attesa alla promozione interculturale.
Un altro carattere non da poco, è una vecchina che avrà un secolo e sarà al massimo 1.40m; vende beni per occidentali tipo acqua minerale, sigarette e biscotti, a due passi dalla GH. Per le due settimane in cui sono stato l’ho sempre sentita sussurrare con una voce flebile “mineral water?” senza mai capire se era la mia immaginazione o stesse davvero parlando.
L’ultima settimana a Varanasi è passata tra lezioni, pratica, lettura ( leggete Krishnamurti, un ateissimo indiano che parla di inutilità del possesso), inevitabile diarrea e pensieri rivolti al ritorno, babilonia. Aiuto. Prendo un treno che mi riporta in 20 ore a Jaipur: mi riapproprio della mia stanza, riaprendo il cuore alle dieci settimane in cui ho vissuto esperienze e persone uniche. Suono il sitar. Venerdi ho il treno per Delhi e sabato l’aereo che, sperando senza sovrattasse per il peso, mi riporterà in Italia. Non riesco a pensarci, anche se è successo numerose volte di tornare questa volta è completamente diverso, perché sono diverso. Cercate di capirmi, mi raccomando. Per la cronaca clinica, raggiunta Jaipur, controllato il peso dei miei bagagli, ho pensato bene di pesarmi: 57.5 kg ( 12 kg in meno di quando sono partito). Un po’ troppo, ma non vi preoccupate, mi sono attaccato al forno di casa e faccio sette pasti al giorno, quindi tutto bene.

[1] Opera citata “The Simpsons”, speciale puntata di Halloween rifacimento di “Shining” in cui Homer impazzisce per l’assenza di birra, da cui è notoriamente dipendente.
[2] NdA. Tipica espressione dialettale veneta.