Eravamo rimasti ad Ometepe, ad i suoi paesaggi ed il suo calore umano. Di ritorno, dopo qualche ora trascorsa a Managua riparto, questa volta destinazione Matagalpa, nord del paese, montagna, per passare gli ultimi giorni delle mie vacanze.Cittadina dal clima autunnale, piccola ma che conta mezzo milione di abitanti. Viaggio in bus con Barton, gringo che lavora tra Washington e Managua per una ong ecologista. Il suo stipendio deve essere buono dato che decide di stare in un hotel da 200cordoba, mentre io trovo tranquillamente una stanzetta per 40. Prospettive immagino.Incontro un sacco di persone: Marjolin, l’amica belga di Lisy, qui per la sua tesi, che s’è trovata un ragazzo nica tatuator-dipintor-artigiano, di poche parole e molto alcool, che indossa costantemente occhialetti alla Lennon. Pablo, figlio di otto anni di Mauro, coordinatore di Movimondo. Amo i bimbi. Partecipo sotto una pioggia tropicale ad un concertino di alcuni ragazzi di Jinotega, che suonano tipico repertorio nica. Leo mi introduce ad un gruppo di dieci turiste catalane a cui sta facendo da guida, più o meno interessanti, una individualità su tutte, Iolanda, Iolanda. Bionda, riccia, mamma di Ian di quattro anni, occhi nocciolati, costante sorriso, conversazioni rivitalizzanti.Presto mi immergo nella naturalezza che circonda la città; montagne verdissime, fusti enormi e ben alti. Impressionante la quantità di flora, di vegetazione, le dimensioni, la densità. Visito una finca di caffè organico in cui c’è un giovane agronomo nica che spiega un sacco di cose su questa pianta (sapevate che per dare i primi chicchi la pianta deve vivere almeno tre anni? Che deve crescere all’ombra per essere di qualità? Che i pesticidi organici sono costituiti da farina?). Nella passeggiata attraverso la finca di caffè, si scoprono enormi banani (utili come fertilizzanti), ananas, manghi e pitaya. Il momento più divertente è stata la camminata verso le cascate, guidato da Carlos, catalano che vive qui da tre anni. Il ragazzo sopravvive facendo la guida turistica. I catalani in Nicaragua, come quantità, sono paragonabili agli israeliani in India. Tra fiumi guadati e sentieri percorsi a piedi scalzi, immersi nel fango con relativi piacevoli scivoloni, mi sono immerso in queste acque gelide, prodotto di queste meravigliose cascate.Dopo queste giornate è iniziato un tempo, dedicato all’integrazione con il locale, alla scoperta e all’investigazione.Tre settimane, forse più, piene di incontri, di persone, di luoghi, di volti e parole.E’ stato il tempo in cui ho avuto la conferma ufficiale di aver vinto il servizio civile con Arci, fatto che mi permetterà di trascorrere altri otto mesi in Nicaragua, a partire da novembre, finalmente pagato, così da non dover pensare ogni attimo a come investire la seppur minima cifra.Come potete immaginare questo avrà delle conseguenze, su di me e sull’intorno che m’accompagna. Mi permetterà di costruire per poi nuovamente partire, di nuovo. La vita del cooperante, con tutte le sue contraddizioni.Nel frattempo ho plasmato casa, la camera m’assomiglia ogni giorno di più, sa di colori, sa di vita, sa di esperienze accumulate, cui guardare attraverso il canale fotografico, sa di India, quanto sa di India. Ho dipinto parte del bagno d’un arancio vivo, che si sposa bene con il giallo acceso che già c’era.Arancio e giallo.La casa è un centro sociale, gente che viene e che va, ai muri i poster degli eventi sociali organizzati a Managua, un Sandino enorme, tante bandiere, tanti ideali. La gioia di svegliarsi il mattino ed incontrare nella sala-dormitorio qualcuno più o meno conosciuto, fermatosi dalla sera prima, di passaggio, o li, semplicemente perché gli va. Preparare il caffè mentre Lisy si diverte tra avena e frutta, abbracci sinceri a questa ragazzina belga. Ricevere amici la sera per ballare, lasciare che il corpo si sciolga. Chiacchierare, conoscere pian piano queste persone speciali che con tanta gioia mi hanno accolto: il sorriso di Leo, le trecce di Lisy, la gestualità di Roberto, le danze di Alam, gli occhi di Iris, la testa di Cristian.Scoprire la storia dei Nahual, gli indigeni che abitavano questa terra prima dell’invasione colonizzante spagnola. Nicaragua, “triangolo sobre el mar” in nahual.Ascoltare le canzoni della rivoluzione sandinista, rabbrividire.La settimana che si è appena conclusa mi ha visto protagonista d’un viaggio di lavoro: sono tornato ad Ometepe, la isola magica, e poi ho proseguito per San Miguelito. L’idea era di fotografare i progetti in corso, conoscere i partner locali e fare una sommaria valutazione dei progetti in corso, la sostenibilità di quelli già terminati.Approdo ad Ometepe e Martin mi porta in moto in giro per l’isola. Che paesaggi, apprezzati ancor più vista la velocità minima legata alla pessima condizione delle strade. Passo la notte in una comunità di donne che, organizzatesi in un comitato, offrono alcune stanze e vitto. Sto in un nucleo familiare tipico, nonna, figlie, mariti e nipoti. Coltivano le loro cose, animali in quantità, chiacchiere a volontà. Mi sono bagnato nel lago, ho respirato un altro indimenticabile tramonto guarnito da una donna che faceva il bucato nelle acque evangelizzando il figlio che le nuotava intorno. L’evangelismo qui s’è sviluppato molto negli ultimi decenni; questa setta predica l’astinenza da alcool e da tanti piaceri peccaminosi. Nella circostanza la donna stava raccontando e commentando la parabola del figliol prodigo, mi sembrava d’essere in un altro tempo ascoltandola. Lago, tramonto e una donna che evangelizza il figlio. Naturale sorriso, cuore si scalda e ringrazia chi di dovere per poter essere dove sono. La nonna ha passato ore a cercare di fidanzarmi con la nipote, una ragazzina che sta per compiere quindici anni. Diceva che non mi devo preoccupare, che la ragazza continuerà a studiare, ma che intanto ci si fidanzi. E certo, manca che mi metta con una quasi quindicenne adesso (peraltro, come troppe indigene, di una bellezza disarmante).La camera dove alloggio è arancio e verde mare, con dipinti tipici dell’isola. Da una finestra posso gustarmi il panorama, parte di questo è un cavallo bianco. Dal mio letto lo guardo, e lui s’avvicina fino ad infilare la testa in camera; lo accarezzo, nitrisce, e contento se ne torna a scorrazzare per il parco. Cavalli bianchi, quanti ne ho incontrati in questi due mesi.Il giorno successivo altro spostamento in moto, direzione Altagracia, dove si è sviluppato un progetto per la protezione delle coltivazioni di platano (banano) da un insetto che lo uccide. In sostanza s’è sperimentato l’utilizzo di un fungo naturale che protegge l’albero, così da non dover utilizzare pesticidi. Se è vero che l’utilizzo del fungo si è dimostrato soddisfacente, è anche vero che al momento non lo si sta utilizzando, perché lo stesso non cresce nell’isola. Quello che si sta facendo è organizzare una coltivazione del fungo nell’isola, così da poter presto proteggere in modo naturale le piantagioni. Immerso tra i platani ascolto e partecipo a discussioni campesine. Immerso tra i platani miro e ammiro la fermezza di questi, come di tanti coltivatori di fronte ai problemi che la cooperativa comporta rispetto alle ristrettezze energetiche, all’acqua che non c’è. Termino la visita, rimonto in moto e tagliamo l’isola, tra i vulcani Asuncion e Madera, tra il lago e la foresta, tra case di legno sognate, tra donne che lavano i panni nel lago, utilizzando gli scogli per stendere la roba così da formare una distesa di colori che squarcia la vista. Chiedo a Martin di lasciarmi li; passo le ultime ore sull’isola disteso tra sabbia fine, terminando di leggere un libro di Ramirez sulla rivoluzione.Al crepuscolo salgo su un traghetto, chiamiamolo generosamente così, direzione San Miguelito, costa est del Lago Nicaragua. Il barco è su due piani, l’inferiore, seconda classe, dove una quantità esagerata di gente si ammassa, e il superiore, prima classe, dove c’è un’aria condizionata freddissima. Risolvo montando l’amaca, tra mille amache, trascorro il viaggio piacevolmente cullato dalle onde e da una pioggia leggera. Intorno carichi di platani e viveri vari che vanno dall’isola alla costa. Il viaggio è interrotto da luci forti quanto inaspettate, porti improvvisati dove si caricano e scaricano le mercanzie.La giornata comincia presto, visito un gruppo di donne con cui Acra ha un progetto per il rafforzamento della situazione economica delle donne nubili con figli. Comprano il pesce al porto, lo trasportano alle loro comunità e lo vendono. Parte del ricavato va a loro. Nella passeggiata scopro il pueblo di San Miguelito, definito di povertà estrema dagli indicatori del PNUD. Come spesso mi capita di notare è si pieno di sofferenza, ma pure di sorrisi, di un impegno per migliorare le cose, di un sentire lucha che pare intrinseco in queste persone. Le donne si prendono cura di me, mi regalano manghi e pitaya da portare a Managua, “che li le cose non sono più genuine” dicono, e una bottiglia di ron. Invece dei pomodori mi danno il ron. Indicativo direi. Saluto le signore che m’accompagnano a prendere il bus, a dieci chilometri dal pueblo. Ovviamente non ci sono orari quindi aspetto un paio d’ore, in compagnia di una signora che gestisce una pulperia nel bel mezzo del nulla. Mi racconta della famiglia, di come il suo istinto di maternità sia ancora forte, avendo solo sette figli. Effettivamente nelle zone rurali il numero di figli varia tra cinque e dodici. E il tasso di crescita è molto forte: mezzo Nicaragua è minorenne! I figli ci fanno compagnia per un pò, poi ognuno va in una direzione diversa, si rivedranno più tardi o il giorno dopo. Una scena surrealista: la donna, pesantemente appoggiata al banco di legno della pulperia, giusto all’incrocio di due strade. Ogni figlio se ne va in una direzione diversa. La donna controlla i tre allontanarsi, scomparire piano all’orizzonte.Il bus passa, mi siedo in un sedile di legno che regalerà una gioia infinita al mio posteriore. Ci sono solo campesinos forniti di immancabile camicia a quadrettoni e cappello da cow-boy con piuma, e donne, con un certo numero di scoppiettanti figli aggrappati. Mi siedo vicino ad un uomo maturo, apparentemente cinquantenne, scoprirò poi avere sessantaquattro anni. Io non sono la rappresentazione del macho, un pò per costituzione e un pò perché proprio non lo cerco. Ma evidentemente il contadino ha dei parametri molto ristretti, tanto da domandarmi con una naturalezza sconcertante. “Vo eres mujer?„ La cosa divertente è che ora ho la barba lunga! Tutto si spiega quando in quel modo tipicamente nica di indicare una cosa manda una sorta di bacio verso i bracciali che porto. Questo gesto lo ho già fatto mio, come era stato in India per il grazioso ondulare del volto. La mia spiegazione sulla sacralità dei bracciali non lo convince, meglio va quando gli dico che ho “La” fidanzata che verrà in Nicaragua e ci sposeremo presto. Solo allora si è tranquillizzato, invitandomi caldamente a tagliarmi i capelli prima di sposarmi altrimenti, dice, sarà un matrimonio di due donne. Tutto questo simpatico interscambio attira l’attenzione del bus intero, anche perché l’uomo non si lascia scappare l’opportunità di ripetere ogni singola parola ad alta voce. Donne e uomini ridono di questo chele atipico. E io partecipo autoironico, rendendomi conto che se risulto alieno in Italia, è normale che un campesino nica nutra dei dubbi su di me; che poi li focalizzi sulla sessualità questo è tipico del macho locale. A parte questa cosa, la conversazione è stata interessante: quando mi ha detto quanti anni ha, ha usato queste parole “ Fuè un dia miercoles, el 2 de mayo del ano 1942. Hacia un gran calor”. Noi risponderemo con un sintetico e sistematico 29/5/80. Sbaglio? Mi ha parlato della sua fattoria, mi ha chiesto quanti ettari abbia la mia famiglia, quante vacche. Parametri di valutazione della ricchezza differenti. Alla fine, dopo avermi preso un sacco in giro, m ha stretto forte la mano, mi ha augurato con sincerità buona fortuna, ha tirato un gran fischio ed è sceso dal bus in corsa
venerdì 1 settembre 2006
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento