Avendo già avuto la fortuna di vedere le prove delle sfilate, per il lungo fine settimana di carnevale (due giorni e mezzo di ferie), abbiamo approfittato per andare in Perù, ad Arequipa. La città non è particolarmente distante a chilometraggio, essendo La Paz ubicata nell’ovest di Bolivia, ma il viaggio è tutto un programma. Comprato il biglietto ci assicurano che in dieci ore saremo li, il che, contando l’immensità di Bolivia e la condizione media delle strade, non è un gran viaggio. Partiamo quasi puntuali e dopo vari controlli intermedi, in meno di tre ore siamo al confine, wow! Qui inizia il divertente: primo, dobbiamo abbandonare il nostro bus, passare per l’immigrazione boliviana, poi per quella peruviana e poi andare a una agenzia di viaggi tal dei tali dove li ci starebbero aspettando e ci avrebbero caricato in un altro bus. A parte il fatto che non avevano detto che bisognava cambiare bus, il resto sembra fattibile. Passiamo l’immigrazione boliviana senza intoppi e entriamo in Perù, attraversando un ponte a piedi che unisce i due paesi. In realtà è molto bello il contesto: sulle sponde del Lago Titicaca c’è il confine boliviano-peruviano. La cosa curiosa è che le persone sono identiche, tutte Aymara, tutte cholite, tutti contadini. A volte i confini fanno proprio ridere. Quello che si, differenzia questi due confini è la lentezza colossale dell’immigrazione peruviana: nell’ordine, fai una fila di venti minuti per poi sentirti dire che prima devi fare un’altra fila, vai all’altra fila, aspetti mezz’ora e una volta li ti dicono che non era necessario fare quella fila, di rimetterti nell’altra, che nel frattempo è diventata lunghissima. In quasi due ore, rispetto ai due minuti boliviani, riusciamo a passare per la migrazione peruviana. Raggiungiamo rilassati l’agenzia di viaggi per sentirci dire che il nostro bus se ne è andato perché ci abbiamo messo troppo a immigrazione e non poteva più aspettare… Eh??? Noi ci abbiamo messo troppo? Vabeh. Aspettiamo quattro ore e prendiamo il prossimo bus. A notte fonda arriviamo ad Arequipa, troviamo un ostello carino, facciamo un giro per la città e a dormire. Il giorno dopo ha riservato altre due sorprese, una la visita al monastero delle suore di clausura dell’ordine di Santa Caterina, l’altro l’ennesimo problema ai denti per me. Il monastero di queste monache è una città nel mezzo della città,con le sue vie, le sue fontane, la sua organizzazione interna. C’abbiamo messo mezza giornata a visitarlo. L’altra mezza (insieme ad altri rapidi passaggi nei giorni successivi) invece, ahimé, è stata passata dal dentista per una devitalizzazione ( e speriamo che almeno da morto mi lasci in pace sto dente!). Abbiamo assistito anche ad un curioso sovrapporsi: l’appuntamento domenicale con la sfilata di tutte le forze militari peruviane presenti nella città (tutte le domeniche lo fanno !?) resa più simpatica dal rincorrersi, nelle vie limitrofi, di bambini e ragazzini che, giustamente, erano molto più concentrati sul carnevale e, anche qui, sul cercare di bagnare più malcapitati possibili. Bel contrasto, gli apparati della guerra sfilano, e i bimbi giocano, alla guerra dell’acqua. Abbiamo incontrato due personaggi degni di nota, uno statunitense annoiato dalla vita che era in città per studiare spagnolo accompagnato dall’inseparabile Lonely Planet e da una logorroica ma simpatica voglia di chiacchierare, soprattutto sul tema delle elezioni presidenziali nel suo paese. Era assai eccitato dall’idea che presto avranno un presidente nero o una presidentessa (mmm..mai dirlo prima che avvenga davvero mannaggia), e si lamentava per il fatto di non poter andare in Bolivia perché la gente li odia. Lasciatemi aprire una parentesi: la questione è che da questo anno, dato che i cittadini boliviani per andare negli Stati Uniti devono richiedere un visto, lo stesso vale per gli statunitensi. E ovviamente, quando le loro stesse regole, gli vengono opposte, cadono dalle nuvole invocando l’odio (mmm). A parte che la gente non li odia, ma al massimo, e con tutta la ragione, ce l’hanno con il loro governo, colpevole da vent’anni di portare avanti una guerra contro la coltivazione della coca, pianta sacra agli indigeni e fonte di ingresso e sostentamento per centinaia di migliaia di famiglie attraverso la vendita delle sue foglie, legali, con cui si fanno dei te e si masticano per recuperare energie durante e dopo la giornata di lavoro. A quattromila metri, lavorare quattordici ore al campo non è esattamente semplice, la foglia di coca da energia. La cocaina non c’entra niente, è un derivato ricavato attraverso trasformazioni chimiche che prevedono, fra l’altro l’uso di benzina nella lavorazione. Insomma, una cosa naturale della pachamama e una delle cose più chimiche che esistano, niente in comune, tranne che per il governo nordamericano. Chiusa la parentesi.
L’altro personaggio degno di nota è un ragazzo peruviano, che viveva nel nostro ostello, che ci accompagnato in una passeggiata notturna alla scoperta della città che sta dall’altra parte del fiume, molto meno curata, molto più simile a una qualsiasi periferia latinoamericana. Tra chiacchierate più o meno allucinanti abbiamo macinato chilometri, per poi salutarci e augurarci buona fortuna.
Si riparte per La Paz!
L’altro personaggio degno di nota è un ragazzo peruviano, che viveva nel nostro ostello, che ci accompagnato in una passeggiata notturna alla scoperta della città che sta dall’altra parte del fiume, molto meno curata, molto più simile a una qualsiasi periferia latinoamericana. Tra chiacchierate più o meno allucinanti abbiamo macinato chilometri, per poi salutarci e augurarci buona fortuna.
Si riparte per La Paz!
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