domenica 15 aprile 2007

Tra i colori, in mille bolivie

Bolivia Orientale, altri mondi dentro lo stesso

Questo paese appare disorganico. Non è infatti applicabile la complementarietà organica indù per descrivere le differenze tra la parte occidentale ed orientale di Bolivia. Se l’occidente visitato è caratterizzato dalle millenarie tradizioni indigene e dalla semplicità, l’Oriente è figlio del progresso, delle influenze culturali argentine e brasiliane, della ricchezza economica, dal mercato della droga.

Cochabamba e Santa Cruz, due città simbolo della Bolivia, raggiunte dopo un lungo viaggio tra giungla e terra rossa. La prima molto più interessante della seconda: c’è ancora, a Cochabamba, l’intrecciarsi delle tante culture che compongono questo paese, mercati stracolmi di boliviani di tutti i tipi, che vendono e comprano, che chiacchierano e litigano; ci sono ristoranti bohemienne e concerti funkie jazz, ci sono pizze squisite. La cammino di notte cercando un luogo dove dormire, il mio andare è accompagnato dal silenzio, agognato nelle grandi città. Santa Cruz rappresenta, per quanto mi riguarda, la discesa all’inferno. Arriviamo a Santa Cruz e ci fermiamo ad una stazione di servizio per fare benzina. La stazione è insolitamente piena di gente, uomini in particolare. Il dubbio è presto svelato. La compagnia di turno, per attirare i clienti, ha scelto come benzinaie delle proronpenti ragazze che lavorano in bikini. Neanche in un film di serie b italiano s’arriva a tanta pochezza. Ovviamente la gente divertitissima, un pò meno le ragazze che mi pare percepire lo facciano più perché abbiano bisogno d’un lavoro, che per esibizionismo. Le città modello europeo hanno i loro pro e contro; se tra i contro c’è sicuramente la perdità delle specificità culturali di ciò che era prima, tra i pro c’è l’opportunità d’assistere, per esempio, ad un concerto arabo mangiando roquefort o d’assistere ad una infarinata jam rock in un bar decadente. Certo è che tutto questo lo si può trovare pure a La Paz, ma l’aria che si respira li è tutt’altra.

L’Oriente, però, è pure la Chiquitania, regione all’estremo est, al confine con il Brasile. Questa area ha vissuto, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, l’evangelizzazione gesuita che ha costruito piccoli villaggi con chiese finemente lavorate in legno, grandi piazze in fronte alle stesse ed il villaggio intorno. Ne ho visitati numerosi, tutti uguali. Un pò come in tutto il continente; chiesa, piazza e villaggio che ci cresce intorno. Qui, però, tutto è verdissimo, siamo nella foresta amazzonica. Passiamo bellissime e rilassanti giornate, mangiando squisitezze, bagnandoci nel lago tra uomini con una gamba, ruote di camion che emergono dal fondo del lago stesso, reggaeton a tutto volume sparato dalle macchine parcheggiate ad un metro dalla riva, tra terme bollenti in una notte di stelle, di ragni e di fango. E’ la settimana santa, quella che nella tradizione cristiana celebra la morte e resurrezzione di Cristo; essendo villaggi basati sulla religione, l’intera popolazione è in fermento. Quotidiane via crucis si snodano tra le vie sterrate, la gente partecipa, più o meno cosciente. La via crucis più intensa è quella della domenica dove, giovani e meno, attuano la morte di Cristo, con un ragazzo che passa una buona ora verticale in croce mentre il sacerdote legge i vangeli. Le persone sentono quello che vedono, rendendoti partecipe di qualcosa di grande, chiamata fede.

Tempo di tornare, attraverso strade rosse si passa per Concepcion, dove riassaporo i fagioli, seppur bianchi. Un segno del riavvicinamento alla terra di Sandino dove i fagioli rossi sono parte quotidiana dell’alimentazione.

Direzione La Paz, destinazione Managua, Nicaragua. Settimane meravigliose, intense, colorate, divertenti.

martedì 3 aprile 2007

Salar di Uyuni e Cairoma

Il ritorno dal caldo e colorato Lago Titicaca mi proietta nella dimensione a volte alienante d’una stazione di bus, in attesa del collegamento per il Salar d’Uyuni. Come spesso accade, però, la stazione è sempre luogo d’incontri e conoscenze, di scontri e di carezze, di personaggi divertenti ed inquietanti. Oltre al ladro di turno, inseguito e catturato dalla polizia con al seguito la cholita saltellante derubata con la sua gonna a balze, innumerevoli uomini e donne con il compito d’attrarre il viaggiatore verso la loro compagnia di trasporti. Per fare ciò gridano la destinazione, ovviamente chi lo fa più forte o con una intonazione più caratteristica guadagna l’attenzione agognata. La stazione è quindi un vociare continuo, un inseguirsi e sovrapponersi di voci rimbalzanti tra le pareti che producono echi dub.

Il viaggio di notte è rapido ed indolore, scaldati da coperte di lana di lama che non farebbero patire il freddo nemmeno nudi all’aria aperta. Colazione con Api, riginerante. Iniziamo il tour con una coppia di mezza età di francesi e una composta da un francese e una peruviana. A tratti simpatici, sorprendentemente critici verso le politiche migratorie del proprio paese, preoccupati, a ragione credo, per quello che Sarzoky, combinerà una volta eletto.
Il Salar di Uyuni è il deserto di sale più grande del mondo, è una distesa bianca sterminata, non si mira nulla all’orizzonte, stordente. Il sole si riflette sul sale in modo quasi insopportabile, occhiali necessari compagni. Una delle mete del tour è l’isola del Pescado, oasi in questo deserto, completamente ricoperta da cactus, il più antico pare abbia diecimila anni. La sera arriviamo in un villaggio dove dormiamo qualche ora, non prima d’aver incontrato una indiana inglese che ha riaperto all’istante il mio innamoramento per quella gente e terra, dopo aver giocolato con dei bimbi, aver ballato qualche ora salsa colombiana con il nulla intorno utilizzando la radio di una macchina, e aver bevuto un rigenerante e necessario mate di coca. Ho la febbre, ma fa parte della distorsione dovuta a calore ed altitudine. Proseguiamo tra numerose lagune che trovano spazio tra sale, roccie e montagne: si arriva fino al confine con il Cile, segnato da un vulcano che se non fossi abituato ai nicaraguensi direi maestoso. Passiamo presto al mattino per delle terme a cinquemila metri dove Chiara si bagna arrotolata da acque calde e l’arancione di un sole che si vede enorme, enorme. Il giorno del ritorno al campo base, si parte quando la notte e la luna ancora governano l’intorno per arrivare direttamente sulla Luna. Si, sulla Luna. Questa è la sensazione che provo quando, ancora assonnato, improvvisamente apro gli occhi e vedo solo terreno grigio e gran fumate. E penso..ah la tecnologia che passi avanti. Va beh. Il tutto è comunque reale, solo che non si tratta d’un altro pianeta ma di geiser che sprigionano vapore caldo e contribuiscono al colore dell’intorno.

Terminata la traversata del deserto si torna a La Paz, ma solo di passaggio, in direzione Cairoma dove ACRA ha un progetto di acqua potabile. Accompagno Chiara che sta conducendo lo studio socio antropologico, quale scusa migliore per godersi altri luoghi magnifici tra persone semplici e speciali. Cairoma è a otto ore da La Paz, che possono essere sette ma possono essere pure dieci. Il tragitto per arrivarci è una continua arrampicata tra tornanti stretti e dissestati, che solo conoscendo a menadito si possono affrontare con tranquillità, come fa Don José, uomo dolce e posato, autista della ong. Passo giornate in lunghi spostamenti tra le diverse comunità beneficiarie del progetto, tra strade che sono rivoli di fango e prati verdi, tra patate straordinariamente saporite e birra all’uovo, tra uomini timidi e donne che quasi non si vedono, tra bimbi che cantano orgogliosi l’inno in una scuola alta come me e pallate di neve con Chiara. Correre a quell’altezza toglie il respiro, o forse è la gioia. Dalle interviste emergono diverse tradizioni aymara legate all’acqua, interessante e utilissima questa ricerca, che permette a queste persone di non dimenticare tradizioni millenarie che hanno caratterizzato questa cultura prima dell’invasione culturale cattolica ed evangelica.