lunedì 15 dicembre 2008

De burocratie tomo II

Ed è così che presto al mattino, tra una fitta pioggia, pozzanghere e umidità mi accingo ad accompagnare l’ufficiale del registro domiciliario, mio ultimo ostacolo verso la residenza, a controllare che davvero (!?!) viva nell’ufficio di HOYAM, la nostra controparte, a Trinidad.
Questo dopo aver passato la notte precedente a cercare d’inventarmi una camera da letto in ufficio, perchè si l’ufficio di HOYAM sarà il mio domicilio, quindi casa, quindi cucina, bagno, camera e chi più ne ha più ne metta; più che altro chi più fantasia ha mi aiuti a far sembrar sto ufficio una casa. E quindi metti quel mobile li, fai sembrare quel letto utilizzabile, metti le 3 magliette che hai stese perchè occupino più spazio nell’armadio etc etc. E bene, bagnati come pulcini arriviamo con l’ufficiale alla casa, ufficio. La sua unica domanda è questo è il tuo ufficio? Si. E ci vivi pure? Eccerto se mi permette passi passi a vedere la mia stanza da letto (la cucina neanche provo a mostrargliela perchè è vuoto tristezza). E lui non passa, appunta la sua sentenza e ciao. Passi nel pomeriggio. Le ore più lunghe della mia vita. Anche se non sembra la firma di quel minuto signore mi può risparmiare altri non so nemmeno quanti mesi di follia e soldi soldi. Non so nemmeno più quanti ne ho spesi, forse ottocento euro in totale.
E pranziamo con lo stomaco chiuso.
E beviamo una buonissima ciccia, bevanda a base di mais masticato e sputato.
E passiamo nel pomeriggio, paghiamo i rituales pesos non si capisce mai bene perchè, ed infine con gesto flemmatico ascoltiamo la risposta: tenga il suo certificato di domicilio. Quasi lacrime.
E inizia l’ultimo passo. Corri al piano di sopra, a migrazione, semi allagato perchè nella sede della polizia manca un pezzo di soffitto (!?!) attento che le pozzanghere non bagnino i sacri documenti in triplice copia per carità. E così tra pc accesi che fanno a coppia con il pavimento allagato, sborsando gli ennesimi soldi, beh signori e signore, ho un visto. Ce l’ho!! Dopo tre mesi di lotte quotidiane, di corruzione mio malgrado. Dopo tutto. Ce l-ho!! Esulto come Pessotto sapeva fare, in un mare di ragionevoli lacrime di tensione che sfuma veloce. Si, Sarò legale in Bolivia fino a Dicembre 2009.
E una persona ha il diritto di domandarsi perchè la sua vita dev’essere segnata dalla burocrazia, da migrazione, da carte che qualcun altro ha deciso lui debba avere, possedere per poter stare in qualche luogo.

La legalità...perchè se non c’avessi delle carte non sarei legale? Perchè gli esseri umani per autogovernarsi riescono a scrivere delle pagine tanto buie.

Comunque, grazie a questo visto posso andare in vacanza tranquillo, senza pensare a che diavolo succederà una volta di ritorno.

Si amici qualche giorno e me ne vado in Colombia...

A presto nuove nuove, buone nuove

mercoledì 10 dicembre 2008

De burocratiae tomo I

Amici, amiche
Dopo un pò di tempo, due o tre mesi credo, trovo dei minuti per scrivervi qualche riga.
Non mettevo mano al computer da mesi (ajajaajaj bugia), pero si verità che non m’ha dato mai il tempo per raccogliere le idee.
L’ultimo scritto credo risalga ai fatti di settembre in Bolivia, terribili atti di terrorismo cívico nei quali 15 contadini persero la vita, ne scomparsero un centinaio e si entró in una vorágine di guerra occidente-oriente che accordi politici hanno saputo calmare, certo non cicatrizzare.
Da allora che è successo, beh come sapete ho iniziato un nuovo lavoro, come rappresentante nel paese di una ong catalana, CEAM, centro studi amazzonici. Il lavoro in sé é molto interessante e stimolante, peccato non riesca a trovare il tempo per concentrarmi a sufficienza? Perché dite voi? Il caldo di Santa Cruz ti da alla testa? Macché, o almeno non è cosí drammatico. Il problema è che in questi due quasi tre mesi sto continuando instancabilmente a cercare ed ottenere certificati che serviranno poi per cercarne ed ottenerne altri che alla fine ti permetteranno di rivolgerti a migrazione per la grande sentenza: la VISA, il visto!
Insomma, sto provando sulla mia pelle le mille traversie del migrante, senza le facilitazioni che spesso lavorare con una ong comporta. Questo a parte farmi salire il nervosismo e alleggerirmi il portafoglio di forma piu o meno legale (…) mi fa pensare alle seicentomila traversie che qualsiasi immigrante che per casualità del destino non sia nato-a nella vecchia europa deve vivere se solo gli passa per la testa l’idea di conoscere un’altra parte del mondo. Si perchè come sapete nemmeno da turisti si può arrivare in Europa, bisogna chiedere il visto pure per quello.
E va beh,
Allora nell’ordine uno inizia le varie file e trafile:
Andare a immigrazione a Santa Cruz per chiedere che cosa serve per ottenere il visto d’un anno. La risposta è fai la fila e domanda, un chilometro di fila e due ore più tardi la risposta è, lei non è nella giusta fila passi all’altra.. e alla risposta ma io volevo solo un’informazione su com.. NO passi all’altra. Un’ora dopo la signorina del caso (tutte alte bionde magre e succinte – típica valorazione dell’apparenza cruceña) con sorrisi esageratamente formali mi dice d’andare da una tipa che mi spiegherà. Benissimo, altra fila aspetto, parlo capisco, servono ottantamila documenti e fotocopie, me l’aspettavo, però crollo impotente quando scopro che il visto di 3 mesi che m’avevano fatto a Barcellona, in realtà vale un mese. E qui inizia il fastidio, dico sarà che il proconsole della pippa boliviano a barcellona non sappia nemmeno quanto caspita viga (viga?!?) un visto.. va beh. Il fatto è che io ho passato le prime 3 settimane arrivato viaggiando per visitare i progetti e empaparme come dicono qui, inpatatarmi tradotto. Insomma capire che fanno, come, conoscere i soci local etc. Conscio che avrei avuto 2 mesi abbondanti.
Niente, irremovibili è un errore di Barcellona ed è molto strano che l’abbiano fatto guardandoti con sospetto (ussignuuurr n’altra volta la migra no dai calmo passerà. E passa) Come risolviamo? Beh deve ottenere un altro visto di un mese cosi in 5 settimane SICURAMENTE otterrà tutti i certificati che le servono, più o meno una dozzina, più o meno facili. Con quei certificati poi farò domanda per il visto e in due settimane avrò risposta (mmm quindi ho tre settimane, non cinque).
Perfetto, pieno d’entusiasmo (¡?!) parto alla carica, e vai con la fotocopia di qualsiasi cosa vi venga in mente, e vai con il certificado che non ho l’aids (EVVVAAAIII jajaja), e vai con il certificato che sono in salute (pur vegetariano mi mantengo bene insomma jaja) e vai con il certificato di domicilio, con quello di antecedenti penali della polizia, e vai con la legalizzazione del certificato di matrimonio vistato dal console (un cavaliere della república fascista tristissimo, zozzissimo che si voleva intrattenere a parlare di natiche delle cruceñe.. ma vaff…ah no, sono io che non capisco le battute) e da un ufficio boliviano. E già son passate tre settimane. Sicuro mi sto dimenticando un tot di certificati.
Ma veniamo al problema,
INTERPOL, che non è un problema in sè ma lo diventa quando per legge il certificato deve andaré a la paz perchè lo certifichino, e li se ne vanno tre settimane. E lo ottengo.
MINISTERO DI LAVORO ussignurrr presente il ragioner filini? Uuuuuuu dei tipi diciamo di un’apertura mentale uguale a meno dieci. Insomma niente, il contratto non me lo vogliono accettare e non me l’accetteranno mai per una piccolezza inutile, buona per filini e nessun’altro.
In tutto ciò ho già dovuto chiedere l’ennesimo mese in più di visto pagando altri 100 dollari.
E gia avro speso 500 €.
Ma ecco la genialata. Addio Santa Cruz, andiamo al Beni, paradiso dei vaccari e degli schiavisti dove vivono 4 gatti e la burocrazia sembra molto più leggera.
E andiamo allora.
Ed effettivamente vado al ministero del lavoro e senza battere ciglio mi firmano il contratto (ma dimmi tu). E vado di giubilo, INGENUO.
Vado a interpol perchè mi convalidino il certificato e oddiooo risulta che il mascalzonissimo capo di interpol a santa cruz a parte farmi aspettare tre settimane non aveva inviato il documento a la paz per farlo firmare.. sicuro si era dimenticato e quando io sono arrivato è caduto dalle nuvole e ha falsificato la firma del super capo di interpol (ommarrronnnaa). E io racconto inocente la storia e le mie supposizioni su questo tipo.. Errore quasi fatale. Risposta interpol trinidad: più che mettere in discussione la caratura di un collega mettiamo in discussione il fatto che lei lo abbia corrotto per ottenere il beneplácito di interpol (eeeeelhhhhhh ¡?!??!??! Ma porca…). E la cosa arriva direttamente ai gironi infernali quando in tono quasi supplichevole faccio sapere che mi serve sto certificato per ottenere il visto ed il 19 io esco dal paese per andaré in vacanza in COLOMBIA. Bum, finito. Baratro. Risulta che il Beni è conosciuto piu per il narcotraffico che per la vita sociale o culturale. Il tipo fa 1+1 e nada NARCOTRAFFICANTE glielo leggo negli occhi che lo sta pensando. Faccio la faccia da inocente? Mi sa che non mi riesce molto bene.
Niente annullano il certificato di santa cruz e mi dicono che posso iniziarne un altro per loro gentilezza (eeehhhh???) che piu o meno in 3 mesi lo otterrò (crocifissione immediata).
Metto in moto tutti i contatti del mondo, parlo col capo regionale della polizia come a un fratello (..maronna..) e bon, dopo ogni morte c’è la resurrezione. Arriva all’ufficio il tipo di interpol con il certificato emesso dicendo che ok me lo danno, il giorno dopo (¡?! Mah, poteri loschi immagino).
E con quel certificato vado alla polizia per ottenere il nuovo domicilio, altri novantamila certificati che incredibilmente ottengo in un giorno per gentilezza del padrone di casa. E la risposta è, domani passeremo a visitare la sua casa per controllare che ci viva veramente..

… mmmmmmm..

..To be continued..

venerdì 12 settembre 2008

la lotta, la vita

Amici, odio questo mezzo, amo la carta, il suo odore, l’inchiostro.

Ma per parlare, condividere, dividere, discutere con voi è necessaria l’elettronica.

Sto a La Paz, sto in Bolivia, da un anno. Un anno in cui sono successe tante cose, tra cui il mio matrimonio, condiviso con gli amici di sempre, con gli amici dell’India, di Londra, di Nicaragua, della Bolivia, nel pensiero , per lo meno.

Siamo nel 2008, in Bolivia, a quarant’anni dall’assassinio di Ernesto Guevara, a quasi tre anni dall’elezione del primo presidente indigeno di questo continente.

Credo, fortemente, che, nonostante gli incredibili risultati elettorali in cui il 67% dei votanti hanno confermato il loro appoggio al presidente eletto, record in un paese dove giammai un presidente aveva raggiunto il 50% dei consensi, beh questo non basta per distruggere le forze oligarchiche, le stesse che nell’oriente del paese, nell’indifferenza del mondo, continuano a schiavizzare contadini, a non permetterli di votare. Perché le forze economiche, da decenni ormai, controllano l’economia politica e la politica economica. Perché i mezzi di comunicazione, come sappiamo, felicemente si sottomettono a queste dinamiche.

Fratelli, qui siamo sull’orlo di una guerra civile, 8 morti solo ieri.

Amici, io credo che per me, per lo meno, sia venuto il momento di appoggiare un movimento, un’idea. Non posso dire che il MAS sia la cosa migliore che potesse succedere a questo paese. Ma posso assicurarvi che all’interno del governo e dei ministeri ci sono delle dinamiche interessanti, assai. Penso, sostengo, che ormai da qualche anno Latino America rappresenti, nuovamente, un’avanguardia sociale, di lotta. A dispetto della soporifera Europa, addormentata nel suo agio o troppo intenta, comprensibilmente, ad arrivare a fine mese; lontana ormai da qualsiasi idea. Dove stanno le idee in Europa? Dov’è la politica nel suo significato storico-ideologico?? Dov’è???

Fratelli, non so cosa succederà nei prossimi giorni. L’ambasciata oggi ci ha pre-allarmato, pronti all’evacuazione. Ma perché avere questo diritto? Quando tutti i tuoi amici boliviani rimangono? Quando è tempo di lottare? E se mi conoscete bene, sapete che lottare non significa ammazzare. Lottare significa rivendicare fratelli.

Tutto ciò che negli ultimi decenni in Europa si è dato per scontato grazie alle lotte dei nostri genitori, zii, nonni,. Tutto ciò che in Europa si sta già perdendo, beh qui si sta conquistando.

Se l’ambasciata ci espatria, davvero, non credo d’andarmene. Credo che ognuno trovi il suo posto, io credo di essere stato concepito per appoggiare le lotte Se nel mio paese la gente dorme, lotterò qui.

Vi voglio bene, vi penso sempre, spero siate felici. Io lo sono, grazie al mio amore per Chiara, per la gente e per i diritti, le lotte.

mercoledì 10 settembre 2008

Democrazia e fascismo

di EZIO MAURO


NON c'è proprio nulla di "vecchio" o di "nostalgico", come si sono affrettati a dire in molti, nella polemica sulla doppia sortita sul fascismo e su Salò di due uomini di prima fila della destra italiana al governo, il sindaco di Roma e il ministro della Difesa: né francamente è interessante sapere se è per fascismo istintivo, naturale, antico, che nascono queste bestemmie istituzionali, o per la nuovissima incultura repubblicana, europea, occidentale che domina il berlusconismo indisturbato e regnante.

Al contrario, quelle frasi parlano di noi e di oggi, di ciò che siamo come Paese e come classe dirigente, come cultura nazionale e come pubblica opinione. Di questo vale la pena discutere, dunque, non delle piccole beghe tra Storace ed Alemanno che secondo alcuni sono l'unico movente e la spiegazione pacifica e rassicurante di una rivendicazione congiunta fatta davanti ai simboli della Repubblica, e non a caso da due "uomini nuovi" (se così si può dire) proiettati in competizione sul dopo-Fini, nel grembo berlusconiano che tutto concede e nulla vieta.

Stanno perfettamente insieme, nel rozzo bisogno di riaggiustare l'identità della destra dopo 14 anni, l'esaltazione dell'eroismo cieco e patriottico (dunque ingenuo e storicamente "innocente") di Salò con la riduzione del fascismo ad esperimento di modernizzazione autoritaria, travolto solo da un "esito" incongruo e tragico dovuto all'errore dell'innesto nibelungico col nazismo, le leggi razziali e la guerra. Si chiarisce l'aspetto tattico della svolta di Fiuggi, per la fretta dell'arruolamento belusconiano e la necessità conseguente di un cambio rapido di parole d'ordine e di riferimenti politici: una svolta appunto politicista, nient'affatto culturale, e tanto meno morale e storica, come confermano gli esiti odierni.

E' facile, sotto il mantello, i numeri e la leadership altrui, diventare ministri e presidenti delle Camere. Più difficile diventare democratici convinti: e addirittura convincenti.

Nell'immaturità della svolta, due elementi appaiono soprattutto fragili, e tra loro collegati. L'orrore e la vergogna delle leggi razziali, insieme con la necessità di un accreditamento internazionale, hanno portato Fini e tutta la classe dirigente di An a periodizzare la loro presa di distanza dal fascismo dal 1938. Tutto ciò che è avvenuto in questo senso è naturalmente doveroso e positivo, a partire dal primo incontro tra Fini e Amos Luzzatto, presidente della comunità ebraica italiana, che "Repubblica" ospitò nel 2003 su richiesta dello stesso Luzzatto, perché il leader di An non poteva andare in Israele senza prima aver fatto i conti con gli ebrei italiani. E tuttavia questo forte passo in avanti (nell'assunzione di una responsabilità storica, e nel discostarsene, condannandola) ha un limite se resta isolato. Perché se non c'è una condanna del fascismo come regime ("antiparlamentare, antiliberale e antidemocratico" come disse Mussolini nel '25) si disconosce la sua stessa "natura", la sua opposizione al principio di uguaglianza attraverso l'elitismo da un lato e il razzismo dall'altro, e dunque si può separare - come appunto fa Alemanno - l'esito tragico del Ventennio dalla tragedia quotidiana che nasceva dalla sua stessa essenza liberticida, dal suo "odio per la democrazia", da quella che Turati chiamò l'"anticiviltà".

Non solo: concentrando il "male" del fascismo nel '38, la condanna di quel male si risolve in un atto di contrizione personale a Yad Vascem, come se l'orrore supremo dell'Olocausto assorbisse in sé tutti gli altri scempi della democrazia compiuti dal regime, ogni altro gesto di riparazione, ogni legittima aspettativa degli italiani che avevano subito torti, abusi, violazioni della libertà. A partire dall'assassinio di Matteotti, per il quale nessun post-fascista ha sentito il bisogno nell'anniversario, ottant'anni dopo, di esprimere una condanna dal palazzo del governo, dopo che dal palazzo del governo Mussolini aveva impartito l'ordine di ammazzare un deputato d'opposizione.

Questo limite ha tre ragioni evidenti. La prima è la mancanza di un'autonoma necessità democratica degli uomini di An a chiudere per sempre la storia del loro passato, assumendo non solo la democrazia come contesto imprescindibile della vicenda odierna, ma i costruttori della democrazia - a partire dalla Resistenza - come Padri di una Repubblica condivisa e accettata nei suoi valori e nei suoi caratteri fondanti, tradotti nella Costituzione. La seconda è il limite naturale del berlusconismo - una specie di autismo politico - che concepisce la sua grandezza nell'edificazione di sé e non nella costruzione di una moderna cultura conservatrice democratica e occidentale che il Paese non ha mai conosciuto, doroteo o fascista com'è sempre stato a destra. La terza è lo strabismo congenito degli intellettuali liberali e dei loro giornali, che non hanno mai incalzato la destra per spingerla a liberarsi dei suoi vizi storici e dei suoi ritardi culturali, risparmiando con avarizia ideologica evidente quel pedagogismo che per decenni hanno opportunamente dispiegato nei confronti dei ritardi e delle colpe del comunismo: e che esercitano ancora - naturalmente a senso unico - anche oggi che il comunismo è per fortuna morto ed è nata una sinistra di governo riformista.

Anzi, dovremmo dire che proprio le indulgenze della cultura italiana e del suo establishment compiacente, la permeabilità azionaria (salvo naturalmente la golden share berlusconiana) del Pdl dove contano solo fedeltà e rapporti di forza, non scommesse culturali e coraggio politico, la nuova predisposizione italiana verso il politicamente scorretto e il "non conforme", rendono possibile ciò che sta accadendo: non nel pensiero politico, che con ogni evidenza non c'è, ma nella prassi di governo della destra. E' come se il contesto italiano di oggi autorizzasse un passo indietro rispetto ai timidi passi avanti di più di un decennio fa.

Oggi, in questa Italia, è evidentemente possibile onorare Salò e rimpiangerla. Oggi è possibile rivalutare il fascismo, poi incespicare in una correzione travagliata costruita con due "non" ("comprendere la complessità storica del fenomeno totalitario in Italia non significa non condannare...) per la difficoltà di dire con nettezza qualcosa di chiaro, di risolto, di comprensibile. Dire, soprattutto, cos'è oggi questa destra, in cosa credono i suoi uomini.

Bobbio aveva avvertito su questo possibile esito dello sforzo decennale del revisionismo per affermare un rifiuto dell'antifascismo in nome dell'anticomunismo: una nuova forma "aberrante" di equidistanza tra fascismo e antifascismo. E' ciò che stiamo sperimentando in questo inizio di stagione, nella distrazione italiana del dopo-ferie, in un Paese in cui il senso comune - con i suoi pregiudizi - si è sostituito alla pubblica opinione (con la sua consapevole capacità di giudizio), la sinistra è prigioniera della sua subalternità culturale prima che politica, manca un principio di reazione perché non è in campo un pensiero alternativo al pensiero dominante: mentre si allarga ogni giorno, per conseguenza naturale, quella che i vecchi sudditi sovietici chiamavano la capacità di "digestione" della società.

Ma lo stesso Bobbio avvertiva che alla base della repubblica (e probabilmente della sua tenuta nel lungo dopoguerra) c'era un sentimento civile condiviso: un'"idea comune della democrazia". E' ciò che oggi manca ed è la dominante della fase che stiamo vivendo. Proverei a dare questa definizione: in Italia oggi si contrappongono due diverse idee della democrazia. Non c'è bisogno di giudizi roboanti o di etichette improprie. È sufficiente guardare la realtà.

Da un lato c'è un'idea repubblicana, nazionale ed europea che potremmo definire di democrazia costituzionale, che si riconosce nello Stato moderno, nella divisione dei poteri e nel principio secondo cui la sovranità "risiede" nel popolo. Dall'altro lato c'è l'idea di una democrazia che potremmo chiamare demagogica, una sorta di autoritarismo popolare continuamente costituente di un ordine nuovo, quasi una rivoluzione conservatrice che sovverte l'eredità istituzionale mentre la governa: in nome di un populismo che crea se stesso come un potere sovraordinato agli altri, nella prevalenza della decisione rispetto alla regola, anzi nella teorizzazione della nuova libertà post-politica che nasce proprio dalla rottura delle regole, perché il nuovo mondo si gerarchizza spontaneamente nella subordinazione volontaria al demiurgo.

Ce n'è abbastanza (basta pensare ai richiami impliciti ma evidenti del futurismo, del dannunzianesimo, dell'irrazionalismo, del nazionalismo, della restaurazione rivoluzionaria) perché l'istinto fascista nascosto ma conservato voglia fare la sua parte, si agiti sotto la cenere di una fiamma mai spenta, chieda di partecipare al banchetto costituente di questa "destra realizzata" che cerca una forma compiuta in Italia, una definizione che vada oltre l'orizzonte biografico berlusconiano e il limite biologico del suo titanismo. Così come si capiscono le responsabilità di tutto questo. Si capisce meno, se questa è la partita, cosa faccia chi per definizione sta dall'altra parte del campo. Se questo, tutto questo è destra (qualcuno può ancora avere dubbi?) si può rinunciare ad essere sinistra, col Pd, sia pure sinistra finalmente risolta, e capace di parlare all'intero Paese? Non solo: quell'idea comune della democrazia - che in gran parte coincide con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, dunque è di per sé "costituente" dell'identità civile del Paese - non si può declinare e costruire già dall'opposizione, con il rischio di scoprire magari che quel sentimento è già maggioranza nella coscienza dei cittadini?

venerdì 29 agosto 2008

Infamia de un gobierno infame

Luis Galeano

El Nuevo Diario // Nicaragua.
Jueves, 28 de agosto 2008.

La condena en contra del poeta y sacerdote Ernesto Cardenal, provocó la reacción de varios de los intelectuales más reconocidos a nivel mundial, entre ellos el escritor uruguayo Eduardo Galeano, autor de "Las venas abiertas de América Latina", quien calificó de "infame" la acción en contra del ex ministro de Cultura de la verdadera administración sandinista.

Los correos electrónicos en solidaridad con el padre de la orden trapense y promotor de la Teología de la Liberación, llegaron de plumas autorizadas en Suramérica, El Caribe, Estados Unidos y el Viejo Continente.

"Juicio infame de infame Gobierno", escribió Galeano
Eduardo Galeano, reconocido escritor, crítico de las políticas neoliberales y gran amigo del gobierno sandinista de los años 80, mostró su repudio a las acciones judiciales en contra del sacerdote de la orden trapense.

"Toda mi solidaridad para Ernesto Cardenal, gran poeta, espléndida persona, hermano mío del alma, contra esta infame condena de un juez infame al servicio de un infame gobierno", afirmó Galeano.

"Estas infamias te elogian, Ernesto. Te abraza, desde lejos, desde cerca", agregó el escritor uruguayo que escribió en su obra "Patas arriba", que "los violadores que más ferozmente violan la naturaleza y los derechos humanos, jamás van presos…ellos tienen las llaves de la cárcel".

El juez Primero de Distrito de lo Penal, David Rojas, condenó por el delito de injurias a Cardenal y le ordenó pagar una multa de 20 mil córdobas, como producto de una querella interpuesta por el ciudadano de origen alemán Inmanuel Zerger.

El poeta aseguró que se trata de una "venganza política" del presidente Ortega, por la manera en que fue recibido y homenajeado en Paraguay, a donde asistió para la toma de posesión del mandatario Fernando Lugo, mientras el titular del Ejecutivo nicaragüense era repudiado por feministas que lo acusaron de violador de su hijastra Zoilamérica Narváez.

Cardenal se declaró públicamente en desacato de la sentencia de Rojas, a quien tildó de "danielista". Incluso dijo estar dispuesto a ir a la cárcel antes que cumplir con el fallo que consideró "injusto e ilegal", porque ya el sistema judicial lo había absuelto en diciembre del año 2005.

"No se atrevan a tocarlo", advierte Skarmeta.

En la lista de correos solidarios con el poeta Cardenal apareció el escritor chileno Antonio Skarmeta, quien advirtió que lo más indicado es que no se aventuren a agredirle de ninguna manera.

"Dile a Ortega que aquí en Chile le decimos que no se atreva a tocar a Cardenal ni con el pétalo de una dama. Te abrazo", escribió el intelectual chileno.

Pilar del Río, esposa del escritor José Saramago, calificó de "fuerte y valiente" la decisión de Cardenal de hacer pública la denuncia de la condena en su contra e hizo un llamado a tomar acciones para apoyarle.

"Supongo que habrá que hacer cosas: Cardenal tiene todo el respeto del mundo. Por su poesía, por su vida", señaló del Río, mientras que Roberto Vargas, un activista de Derechos Humanos de Hispanos en Estados Unidos, escribió desde California: "Estimado Padre y Poeta Cardenal, NO ESTÁS SOLO/YOU ARE NOT ALONE!!!!".

Carmen Bohórquez, directora General de Relaciones Internacionales del Ministerio del Poder Popular para la Cultura, Coordinadora de la Red de Intelectuales y Artistas en defensa de la Humanidad, de Venezuela, saludó a Cardenal y se comprometió a informar inmediatamente a sus colegas de Bolivia sobre la situación que atraviesa en Nicaragua.


"No te perdonan por decir la verdad"

La puertorriqueña Luce López-Baralt, traductora de literatura, se sumó a las voces de apoyo al bardo nicaragüense y lamentó que a estas alturas tenga que estar enfrentando tales acciones en su contra.

"Sé bien de tu entereza (yo conozco tu alma como pocas personas) y de tu valor
incondicional. Pero me apena, de veras, que a estas alturas de tu vida, ejemplar en todos los sentidos, tengas que pasar por estos sinsabores totalmente innecesarios. La Revolución perdida, qué bien lo apuntaste. Sé que les es difícil perdonarte tu sinceridad y tu denuncia ante el mundo", señaló López Baralt.

"Es indigno lo que está ocurriendo", manifestó el traductor Bernard Desfretiéres, mientras que la escritota brasileña Ione Carvalho, escribió: "Puedo imaginar la tensión que esto puede significar para usted, pero estoy segura que no te colocarán en la cárcel, porque esto provocará un movimiento de repudio a Daniel (Ortega) de escala nacional e internacional".

"No creo que se atrevan a meter en prisión a un hombre de 82 años, que fue el ministro de Cultura, pero uno nunca sabe, así que manténganme informado de todo lo que ocurra con el poeta Cardenal", indicó Tamsin Mitchell, miembro de PEN INTERNACIONAL, una organización que promueve el fortalecimiento de las sociedades y las comunidades de diferentes culturas y los idiomas mediante la lectura y la escritura.

"Querido poeta Cardenal: Quiero manifestar de antemano mi apoyo a cualquier pronunciamiento que hagan los escritores nicaragüenses para denunciar la barbarie cometida contra usted. Lo que están haciendo Daniel Ortega y Rosario Murillo es un ejemplo más de la cobardía de este gobierno, que odia a los artistas y a los medios de comunicación que tienen opiniones independientes y criterio propio. Un abrazo y la lucha continúa", fue el escrito de Daniel Ulloa, poeta joven nicaragüense residente en Alemania.

Los escritores nicaragüenses Sergio Ramírez, Gioconda Belli, Claribel Alegría, Daysi Zamora y Vida Luz Meneses, coincidieron en que se trata de una "venganza política" en contra del sacerdote, y aseguraron denunciarán internacionalmente esta acción de Ortega, a quien acusaron de manipular el Poder Judicial para castigar a sus adversarios y premiar a sus fieles.

mercoledì 27 agosto 2008

Trinidad, Tocaña e Santa Cruz

Sono passati già tre mesi da quelle bellissime giornate rossanesi, per me indimenticabili. E in tre mesi sono successe un sacco di cose, una mole di lavoro notevole mi ha tenuto spesso tra le Tre Croci, così si chiama la cordigliera che accarezza i villaggi dove lavoro, vista sull’imperioso Illimani.

Ho avuto l’opportunità di stare qualche giorno in Beni, dipartimento orientale del paese, amazzonico. Un altro pianeta, almeno trenta gradi costanti, una quantità di flora e fauna mai vista, coccodrilli nei rigagnoli ai bordi delle strade di terra. Un’altra Bolivia, sempre Bolivia. Un altro tempo, lontano dall’Andino indaffarato a coltivare la terra. Rilassato perchè in oriente la terra dà, e il lavoro per sopravvivere è di conseguenza esponenzialmente minore; motorizzato, essendo il passatempo principale girare intorno alla piazza della capitale, Trinidad, a bordo di giganteschi suv o di moto più o meno enormi . Il clima e l’attitudine..nuovamente Nicaragua, amache, musica dalle case, balli fino al mattino allietati da qualche bevanda gelata. Nicaragua.

E a Ferragosto, non potendo partecipare alla sandonatese amatissima grigliata da Gio, sono stato a Tocaña, vicino Coroico, tre ore al nord di La Paz , subtropico, a festeggiare la festa degli afroboliviani. L’ennesima, altra, Bolivia. Due giorni di Saya, la musica degli afrodiscendenti boliviani, ovviamente a base di percussioni. Balli e scene divertenti; come sempre quando in questo paese c’è una festa non si fanno mancare l’alcool che scorre a fiumi, fino a perdere la coscienza. Prima che questo avvenga, però, le situazioni divertenti non mancano: come per esempio un artigiano cileno che balla avvinghiato ad una cholita nera. Come raccontavo altre volte le cholite sono le donne boliviane che vestono tradizionale, con capelli raccolti in treccie, gonna a strati a mongolfiera, tanto grasso e una bombetta. Immaginatevi questo artigiano giovane sporco con dreads, insomma l’artigiano viveur medio, che abbraccia e mostra la lingua a questa cholita nera venti centimetri più alta e cinquanta chili più grassa di lui. Certamente trash, certamente divertente. Altra scena non da poco, il piacere di vedere i neri ballare. Fantastiche le loro movenze come sempre, con il particolare però, che, come da costume boliviano, non cè contatto fisico tra i ballerini. Quindi ad un atmosfera caliente per le note movenze si associava questa distanza fisica. Sopita dagli ormoni.

E di notti in bianco ne ho passate, non solo per gli ormoni, ma anche per una decisione da prendere. Dopo riflessioni, pare e contropare, ho deciso: da ottobre me ne vado a Santa Cruz, capitale dell’oriente capitalista e schiavista. Sono stato selezionato come coordinatore paese di una piccola ong catalana, CEAM, che significa centro studi amazzonici. Come capirete dalla sigla, è una organizzazione che si focalizza sulla salvaguardia dell’amazzonia, delle sue genti, e non solo. E’ un’opportunità grande, per continuare ad imparare questo lavoro, per continuare a confrontarmi con le nazioni etniche che caratterizzano questo paese, per vivere il razzismo cittadino che si respira in quel lato di Bolivia, per capire come appoggiare il cambio, i contadini e la loro presa di coscienza.

Perchè le paranoie? Perchè la Bolivia è grande e Santa Cruz è a sedicissime comode ore da La Paz , capitale del paese e città dove vive la mia sposa, che resterà un altro anno in capitale, a lavorare con ACRA. Ma insomma, tra qualche charter e tanta pazienza faremo passare quest altro anno senza vivere assieme.

E poi c’è anche il fatto di lasciare ACRA, organizzazione con cui lavoro da due anni e mezzo, che mi ha dato tanto dandomi l’opportunità di mettere a disposizione le mie conoscenze in due contesti socio-politici incredibili come Nicaragua e l’Occidente Boliviano.

Certo non è un addio.

Insomma, come dice il nonno nicaraguenze, lo más probable es que quién sabe!

sabato 5 luglio 2008

Mohamed Ba, Presidio per i diritti degli stranieri

Un punto di vista..

1 NON AVER ALTRO IO ALL'INFUORI DI TE;

2 NON NOMINARE LA NaZIONALITA' DEI NUOVI COMPAGNI INVANO;

3 ONORARE LA MEMORIA DEI NONNI E RACCONTARE LA LORO STORIA AI NUOVI COMPAGNI;

4 RICORDARTI DI ONORARE LE FESTE DI TUTTE LE CULTURE PRESENTI NELLA TUA' CITTA;

5 ACCOGLIERE SPONTANEAMENTE I NUOVI COMPAGNI MA NON FARLO PERCHE' QUALCUN'ALTRO LO CHIEDE;

6 NON TESTIMONIARE SULLA CULTURA DEGLI ALTRI SE NON NE SAI NIENTE O PER SENTITO DIRE;

7 NON RUBARE LA PAROLA AI NUOVI COMPAGNI, PRIMA DI TUTTO IMPARA AD ASCOLTARLI;

8 NON DESIDERARE SOLO LA CULTURA DEGLI ALTRI, RISCHI DI FARE MORIRE LA TUA;

9 NON DESIDERARE SOLO LA TUA CULTURA, RISCHI LA SOLITUDINE E LA TRISTEZZA;

10 NON UCCIDERE LE DIFFERENZE CULTURALI, SONO LA BELLEZZA DELL'UMANITA';
NON PERDETE L'ATTIMO, ACCOGLIETE.

giovedì 3 luglio 2008

Discurso de Eduardo Galeano

Agradecimiento al título de primer Ciudadano Ilustre del Mercosur
Montevideo- Reenviado por VDA

Nuestra región es el reino de las paradojas.

Brasil, pongamos por caso:

paradójicamente, el Aleijadinho, el hombre más feo del Brasil, creó las más altas hermosuras del arte de la época colonial;

paradójicamente, Garrincha, arruinado desde la infancia por la miseria y la poliomelitis, nacido para la desdicha, fue el jugador que más alegría ofreció en toda la historia del fútbol;

y paradójicamente, ya ha cumplido cien años de edad Oscar Niemeyer, que es el más nuevo de los arquitectos y el más joven de los brasileños. ***

O pongamos por caso, Bolivia: en 1978, cinco mujeres voltearon una dictadura militar. Paradójicamente, toda Bolivia se burló de ellas cuando iniciaron su huelga de hambre. Paradójicamente, toda Bolivia terminó ayunando con ellas, hasta que la dictadura cayó.

Yo había conocido a una de esas cinco porfiadas, Domitila Barrios, en el pueblo minero de Llallagua. En una asamblea de obreros de las minas, todos hombres, ella se había alzado y había hecho callar a todos.

-Quiero decirles estito –había dicho-. Nuestro enemigo principal no es el imperialismo, ni la burguesía, ni la burocracia. Nuestro enemigo principal es el miedo, y lo llevamos adentro.

Y años después, reencontré a Domitila en Estocolmo. La habían echado de Bolivia, y ella había marchado al exilio, con sus siete hijos. Domitila estaba muy agradecida de la solidaridad de los suecos, y les admiraba la libertad, pero ellos le daban pena, tan solitos que estaban, bebiendo solos, comiendo solos, hablando solos. Y les daba consejos:

-No sean bobos –les decía-. Júntense. Nosotros, allá en Bolivia, nos juntamos. Aunque sea para pelearnos, nos juntamos. *** Y cuánta razón tenía.

Porque, digo yo: ¿existen los dientes, si no se juntan en la boca? ¿Existen los dedos, si no se juntan en la mano?

Juntarnos: y no sólo para defender el precio de nuestros productos, sino también, y sobre todo, para defender el valor de nuestros derechos. Bien juntos están, aunque de vez en cuando simulen riñas y disputas, los pocos países ricos que ejercen la arrogancia sobre todos los demás. Su riqueza come pobreza, y su arrogancia come miedo. Hace bien poquito, pongamos por caso, Europa aprobó la ley que convierte a los inmigrantes en criminales. Paradoja de paradojas: Europa, que durante siglos ha invadido el mundo, cierra la puerta en las narices de los invadidos, cuando le retribuyen la visita. Y esa ley se ha promulgado con una asombrosa impunidad, que resultaría inexplicable si no estuviéramos acostumbrados a ser comidos y a vivir con miedo.

Miedo de vivir, miedo de decir, miedo de ser. Esta región nuestra forma parte de una América Latina organizada para el divorcio de sus partes, para el odio mutuo y la mutua ignorancia. Pero sólo siendo juntos seremos capaces de descubrir lo que podemos ser, contra una tradición que nos ha amaestrado para el miedo y la resignación y la soledad y que cada día nos enseña a desquerernos, a escupir al espejo, a copiar en lugar de crear. *** Todo a lo largo de la primera mitad del siglo diecinueve, un venezolano llamado Simón Rodríguez anduvo por los caminos de nuestra América, a lomo de mula, desafiando a los nuevos dueños del poder:

-Ustedes –clamaba don Simón-, ustedes que tanto imitan a los europeos, ¿por qué no les imitan lo más importante, que es la originalidad?

Paradójicamente, era escuchado por nadie este hombre que tanto merecía ser escuchado. Paradójicamente, lo llamaban loco,

porque cometía la cordura de creer que debemos pensar con nuestra propia cabeza,

porque cometía la cordura de proponer una educación para todos y una América de todos, y decía que al que no sabe, cualquiera lo engaña y al que no tiene, cualquiera lo compra,

y porque cometía la cordura de dudar de la independencia de nuestros países recién nacidos:

-No somos dueños de nosotros mismos –decía -. Somos independientes, pero no somos libres. *** Quince años después de la muerte del loco Rodríguez, Paraguay fue exterminado. El único país hispanoamericano de veras libre fue paradójicamente asesinado en nombre de la libertad. Paraguay no estaba preso en la jaula de la deuda externa, porque no debía un centavo a nadie, y no practicaba la mentirosa libertad de comercio, que nos imponía y nos impone una economía de importación y una cultura de impostación.

Paradójicamente, al cabo de cinco años de guerra feroz, entre tanta muerte sobrevivió el origen. Según la más antigua de sus tradiciones, los paraguayos habían nacido de la lengua que los nombró, y entre las ruinas humeantes sobrevivió esa lengua sagrada, la lengua primera, la lengua guaraní. Y en guaraní hablan todavía los paraguayos a la hora de la verdad, que es la hora del amor y del humor.

En guaraní, ñe'é significa palabra y también significa alma. Quien miente la palabra, traiciona el alma.

Si te doy mi palabra, me doy. *** Un siglo después de la guerra del Paraguay, un presidente de Chile dio su palabra, y se dio.

Los aviones escupían bombas sobre el palacio de gobierno, también ametrallado por las tropas de tierra. Él había dicho:

-Yo de aquí no salgo vivo.

En la historia latinoamericana, es una frase frecuente. La han pronunciado unos cuantos presidentes que después han salido vivos, para seguir pronunciándola. Pero esa bala no mintió. La bala de Salvador Allende no mintió.

Paradójicamente, una de las principales avenidas de Santiago de Chile se llama, todavía, Once de Setiembre. Y no se llama así por las víctimas de las Torres Gemelas de Nueva York. No. Se llama así en homenaje a los verdugos de la democracia en Chile. Con todo respeto por ese país que amo, me atrevo a preguntar, por puro sentido común: ¿No sería hora de cambiarle el nombre? ¿No sería hora de llamarla Avenida Salvador Allende, en homenaje a la dignidad de la democracia y a la dignidad de la palabra? *** Y saltando la cordillera, me pregunto: ¿por qué será que el Che Guevara, el argentino más famoso de todos los tiempos, el más universal de los latinoamericanos, tiene la costumbre de seguir naciendo? Paradójicamente, cuanto más lo manipulan, cuanto más lo traicionan, más nace. Él es el más nacedor de todos.

Y me pregunto: ¿No será porque él decía lo que pensaba, y hacía lo que decía? ¿No será que por eso sigue siendo tan extraordinario, en este mundo donde las palabras y los hechos muy rara vez se encuentran, y cuando se encuentran no se saludan, porque no se reconocen? *** Los mapas del alma no tienen fronteras, y yo soy patriota de varias patrias. Pero quiero culminar este viajecito por las tierras de la región, evocando a un hombre nacido, como yo, por aquí cerquita.

Paradójicamente, él murió hace un siglo y medio pero sigue siendo mi compatriota más peligroso. Tan peligroso es que la dictadura militar del Uruguay no pudo encontrar ni una sola frase suya que no fuera subversiva, y tuvo que decorar con fechas y nombres de batallas el mausoleo que erigió para ofender su memoria.

A él, que se negó a aceptar que nuestra patria grande se rompiera en pedazos;

a él, que se negó a aceptar que la independencia de América fuera una emboscada contra sus hijos más pobres,

a él, que fue el verdadero primer ciudadano ilustre de la región, dedico esta distinción, que recibo en su nombre.

Y termino con palabras que le escribí hace algún tiempo: 1820, Paso del Boquerón. Sin volver la cabeza, usted se hunde en el exilio. Lo veo, lo estoy viendo: se desliza el Paraná con perezas de lagarto y allá se aleja flameando su poncho rotoso, al trote del caballo, y se pierde en la fronda.

Usted no dice adiós a su tierra. Ella no se lo creería. O quizás usted no sabe, todavía, que se va para siempre.

Se agrisa el paisaje. Usted se va, vencido, y su tierra se queda sin aliento.

¿Le devolverán la respiración los hijos que le nazcan, los amantes que le lleguen? Quienes de esa tierra broten, quienes en ella entren, ¿se harán dignos de tristeza tan honda?

Su tierra. Nuestra tierra del sur. Usted le será muy necesario, don José. Cada vez que los codiciosos la lastimen y la humillen, cada vez que los tontos la crean muda o estéril, usted le hará falta. Porque usted, don José Artigas, general de los sencillos, es la mejor palabra que ella ha dicho.

Eduardo Galeano, escritor y periodista uruguayo, autor de Las venas abiertas de América Latina, Memorias del fuego y Espejos/Una historia casi universal.

domenica 25 maggio 2008

Settimane sandonatesi

L’ultima volta che spingevo le mie dita su una tastiera era ad un mese dalle nozze, per raccontarvi le sensazioni di una persona che si avvicinava alle stesse. Da quel momento sono successe mille cose, tra cui le nozze, tutte gioiose e stimolanti.

Sono tornato in Italia nella speranza di bruciarmi grazie all’entrante estate, incontrando una perturbazione che dall’alto del cielo m’ha detto ciao ciao per due settimane.

Tempo passato a San Donà e dintorni, nei luoghi dei miei primi vent’anni di vita, tra gli amici, carissimi, e delle persone sconosciute, che crescono in un intorno che è già diverso da quello che ho vissuto. Ho passato delle bellissime giornate, con i fratelli sandonatesi, che poche volte ho sentito così vicini, e con amici che alla spicciolata iniziavano ad arrivare da diverse terre per partecipare all’incontro matrimoniale. Ho messo a soqquadro la casa, la testa e la pazienza dei miei santi genitori, ospitando fino a cinque persone alla notte nell’Holiday Inn Momentè, tra cene in esperanto e chiacchiere nicaraguesi, tra aperitivi e miss costa rica, tra passeggiate tra le calli veneziane e pioggia, tra persone che hanno trovato nel linguaggio dell’attrazione la loro dinamica comunicativa.

Due settimane intensissime, tra calcetto e monkey’s, tra autostrade immaginate ed acqua offertaci da fratelli non ancora conosciuti, tra una Trieste raggiante ed una Venezia ansimante.

E’ stato, credo, un modo per riconciliarmi con gli amici di sempre, quelli con cui si sono fatte tutte le stupidaggini e con cui si sono condivise le prime esperienze, sempre le più intense. L’occasione per capire che ognuno la pensa come vuole, che ognuno sta crescendo in un contesto diverso e che,in relazione a questo, forma la sua testa, il suo modo di pensare; ma per convincermi, convincerci forse, che solo attraverso il confronto, l’interagire continuo, si può veramente capire cosa vale la pena. Per cosa arrabbiarsi e in cosa credere, nell’Amicizia per esempio. Ho ricevuto delle lettere, ho ascoltato delle parole, ho letto negli occhi di chi la bocca preferisce aprirla il meno possibile, e mi sono emozionato. Un emozione non a termine, una sensazione che continua a pervadermi; riempirmi; questo è ciò che mi porto dentro di queste due settimane.

E vi ringrazio per questo.

venerdì 25 aprile 2008

Sul 25 Aprile

"Io non sono che una piccola cosa, e il mio nome sarà… presto dimenticato, ma l'idea, la vita e l'ispirazione che mi pervasero continueranno avivere. Li incontrerai ovunque, sugli alberi in primavera, negli uomini sul tuo cammino, in un breve e dolce sorriso. Incontrerai ciò che ebbe unvalore per me, l'amerai e non mi dimenticherai. Crescerò e diventerò maturo, vivrò in voi, i cui cuori ho occupato, e voi continuerete a vivere, perché‚ sapete che mi trovo davanti a voi e non dietro di voi, come forse eri portata a credere... Non sono vecchio, non dovrei morire,ma tuttavia mi pare naturale e semplice. E' soltanto il modo brusco che ci spaventa in un primo momento. Il tempo è breve, i pensieri sono molti. Noncapisco il perché, ma il mio animo è sereno..."
Quello che avete appena letto è il testamento spirituale di un giovanepartigiano europeo, la sua ultima lettera prima di essere fucilato.
Alla Resistenza PeaceLink ha dedicato questa pagina web http://lists.peacelink.it/news/2005/04/msg00057.html
W l'Italia che resiste!

giovedì 10 aprile 2008

Come ci si sente a poche settimane dal matrimonio?

Sto ricevendo questa domanda dalle persone più diverse e nelle forme più strane, dalle divertenti a quelle che cercano in tutti modi di persuadermi dal farlo.

Ed è un piacere leggere come ognuno, a seconda di quello che sta vivendo adesso nella sua vita, interpreti il matrimonio in un modo diverso: dalle persone recentemente sfidanzate che mi danno del pazzo suicida, alle persone innamorate dell’amore che, indipendetemente dalla loro età, sono felici per noi. Da quelli che lo vivono come qualcosa talmente lontano dal loro quotidiano che semplicemente non lo capiscono, ai contemporanei che non credono nell’istituzione. A quelli che considerano i ventott’anni un’età inspiegabilmente giovane per compiere questo passo.

Fratelli, compagni, sono felice. Punto.

È bello svegliarsi al mattino ed avere accanto la persona che si sa essere per te la più speciale, è bello cucinarsi, ballare, uscire e fare mattina, leggere insieme, capirsi.

Con queste premesse non può che essere un piacere avvicinarsi a questa ritualità tanto chiacchierata.

L’emozione ancora non c’è, perchè tra l’organizzare un matrimonio dall’altra parte dell’oceano ed il lavoro sinceramente non ho ancora avuto il tempo di decantare bene la cosa. Una volta che il mio corpo e ciò che l’accompagna sarà atterrato in Italia, ecco, in quel preciso momento, penso inizierò a sentirlo.

Nel frattempo navigo tra sistemi excel a due milioni di celle e centinaia di pagine: come sapete abbiamo ben pensato di fare arrivare amici da i luoghi del mondo dove siamo stati. Questo implica un divertentissimo sforzo di logistica che ti fa scoprire le tante differenze culturali: si va dal cercare di convincere i latinoamericani che l’email è un mezzo utile per comunicare, ancor più se non ci mettono due mesi a risponderti, ai nordeuropei che hanno comprato il volo per arrivare sei mesi prima. Da quelli che non prendono l’aereo per non inquinare in Europa e verranno in autostop o treno, a quelli che prenderanno la macchina per fare cinquecento metri. Da quelli che non hanno ancora risposto, e si presenteranno tranquilli al matrimonio stonati come sono, a quelli che da un anno ci chiedono cosa si mangierà e finiranno per assaggiare appena i piatti perchè sono a dieta.

È sempre divertente capire come le persone riescano a vivere le stesse cose in modo diverso.

Immaginatevi quel giorno, beh non voglio anticipare nulla, ma credo sarà piuttosto curioso vedere come persone, evidentemente diverse, per formazione, cultura e interessi, interagiranno. Sicuramente il Barolo aiuterà tutti.

Que viva il Barolo!

sabato 15 marzo 2008

Cairoma Stellare

A volte ci si rende conto di quanto si è fortunati a lavorare tra questi paesaggi da fiaba, tra questa gente semplice e sorridente.
A volte le persone si preoccupano per noi, ascoltano delle notizie sui luoghi dove viviamo, e traggono delle conclusioni generali.
A volte le persone si dimenticano di noi.
A volte le strade che percorriamo ci portano lontani da casa, ma, proprio per questo, vicini con il cuore alla nostra gente, anche se, ogni giorno di piú, risulta difficile capire le dinamiche del bel paese, le scelte che le persone fanno. La mia coscienza è inevitabimente, anche se sarebbe bello si potesse evitare, diversa da chi ci sta dentro. Una coscienza che accomuna la gran maggioranza delle persone che quel paese, per diverse ragioni, l’hanno lasciato.
A volte queste stesse persone, invece, si comportano come l’italiano medio medio.
A volte mi viene voglia di raccontarvi degli attimi, come quelli vissuti in una notte tornando a Cairoma, il villaggio dove lavoro, da una comunità vicina, seduto dietro nella moto guidata da un nostro promotore.
Un viaggio nel nero, non nel grigio o nella nebbia, ma nel nero, in quell’oscurità totale illuminata solo dalla luna, quando trova spazio tra le nuvole. Le zone rurali di Bolivia spesso non hanno elettricità, se ce l’hanno sicuramente non la destinano all’illuminazione del cammino che collega una comunità all’altra. Chiamarlo cammino è appropriato perchè gli unici che dovrebbero averci il permesso di transitare sono i pedoni, visto lo stato pietoso dello stesso. Terra, roccia, sassi, erba, da cui negli anni si è ricavato qualcosa che assomiglia ad una strada, un cammino appunto.
E come il cammino di Santiago serve a ritrovarsi, i cammini di Cairoma sono una buona prova di forza anche per me che di strade credo ormai di averne viste di tutti i tipi.
Pochi giorni fa me ne sono reso conto, la diversa percezione delle cose. Stavo in un microbus in una strada di montagna, nemmeno troppo mal messa, quando dando un occhiata svogliata alle mie spalle, mi sono reso conto che una signora tedesca stava tremando coprendosi gli occhi per il terrore che il micro potesse sbandare e rotolare per un migliaio di metri nell’onnipresente burrone. Sinceramente mi è venuto da ridere, ma non per mancanza di rispetto verso la signora, evidentemente non abituata alle strade sterrate boliviane. Sorridevo di me, della mia percezione distinta delle cose, di come evidentemente le concepisca e le senta, di una forma molto più tranquilla e rilassata, dovuta evidentemente all’abitudine al viverle.
Insomma, tornando a Cairoma, ricontestualizzando, mi trovavo in queste strade immaginate con Filiberto, il promotore, che tranquillo avanzava come se conoscesse il percorso a memoria. E questa è l’unica spiegazione che mi do visto che non si vedeva nulla e lui tranquillamente impostava i tornanti come se fossimo stati sotto il sole di mezzogiorno. All’improvviso, in lontananza, nell’altro versante della montagna, delle luci; capire se fossero luci o stelle era davvero difficile, e alla fine, irrilevante. La sensazione era che queste luci che mi apparivano timide ogni tot di chilometri, fossero pianeti lontani ed irraggiungibili. Come se noi fossimo persi nello spazio, nuotando nel nulla, e vedessimo nell’universo queste stelle, asteroidi o pianeti. Mi rimbalzava il cuore, non certo dalla paura, se non dall’emozione.
Dalla coscienza acquisita che ti fa vivere con gioia l’opportunità di lavorare in dei luoghi che sono davvero altri pianeti, popolati da questi contadini orgogliosi della loro cultura millenaria, che passano le giornate arando a mano i loro campi, da delle donne che portano delle gonne a mongolfiera che, perennemente in cinta, lavano, cucinano, accudiscono i piccoli, e da dei bimbi, irrimediabilmente cicciotti e sorridenti che a diec’anni sono molto più maturi rispetto al lavoro e alla famiglia che il promedio degli universitari italiani.
Cairoma Stellare, Cairoma.


domenica 10 febbraio 2008

Arequipa, un Perù di monasteri, marce e carnevale

Avendo già avuto la fortuna di vedere le prove delle sfilate, per il lungo fine settimana di carnevale (due giorni e mezzo di ferie), abbiamo approfittato per andare in Perù, ad Arequipa. La città non è particolarmente distante a chilometraggio, essendo La Paz ubicata nell’ovest di Bolivia, ma il viaggio è tutto un programma. Comprato il biglietto ci assicurano che in dieci ore saremo li, il che, contando l’immensità di Bolivia e la condizione media delle strade, non è un gran viaggio. Partiamo quasi puntuali e dopo vari controlli intermedi, in meno di tre ore siamo al confine, wow! Qui inizia il divertente: primo, dobbiamo abbandonare il nostro bus, passare per l’immigrazione boliviana, poi per quella peruviana e poi andare a una agenzia di viaggi tal dei tali dove li ci starebbero aspettando e ci avrebbero caricato in un altro bus. A parte il fatto che non avevano detto che bisognava cambiare bus, il resto sembra fattibile. Passiamo l’immigrazione boliviana senza intoppi e entriamo in Perù, attraversando un ponte a piedi che unisce i due paesi. In realtà è molto bello il contesto: sulle sponde del Lago Titicaca c’è il confine boliviano-peruviano. La cosa curiosa è che le persone sono identiche, tutte Aymara, tutte cholite, tutti contadini. A volte i confini fanno proprio ridere. Quello che si, differenzia questi due confini è la lentezza colossale dell’immigrazione peruviana: nell’ordine, fai una fila di venti minuti per poi sentirti dire che prima devi fare un’altra fila, vai all’altra fila, aspetti mezz’ora e una volta li ti dicono che non era necessario fare quella fila, di rimetterti nell’altra, che nel frattempo è diventata lunghissima. In quasi due ore, rispetto ai due minuti boliviani, riusciamo a passare per la migrazione peruviana. Raggiungiamo rilassati l’agenzia di viaggi per sentirci dire che il nostro bus se ne è andato perché ci abbiamo messo troppo a immigrazione e non poteva più aspettare… Eh??? Noi ci abbiamo messo troppo? Vabeh. Aspettiamo quattro ore e prendiamo il prossimo bus. A notte fonda arriviamo ad Arequipa, troviamo un ostello carino, facciamo un giro per la città e a dormire. Il giorno dopo ha riservato altre due sorprese, una la visita al monastero delle suore di clausura dell’ordine di Santa Caterina, l’altro l’ennesimo problema ai denti per me. Il monastero di queste monache è una città nel mezzo della città,con le sue vie, le sue fontane, la sua organizzazione interna. C’abbiamo messo mezza giornata a visitarlo. L’altra mezza (insieme ad altri rapidi passaggi nei giorni successivi) invece, ahimé, è stata passata dal dentista per una devitalizzazione ( e speriamo che almeno da morto mi lasci in pace sto dente!). Abbiamo assistito anche ad un curioso sovrapporsi: l’appuntamento domenicale con la sfilata di tutte le forze militari peruviane presenti nella città (tutte le domeniche lo fanno !?) resa più simpatica dal rincorrersi, nelle vie limitrofi, di bambini e ragazzini che, giustamente, erano molto più concentrati sul carnevale e, anche qui, sul cercare di bagnare più malcapitati possibili. Bel contrasto, gli apparati della guerra sfilano, e i bimbi giocano, alla guerra dell’acqua. Abbiamo incontrato due personaggi degni di nota, uno statunitense annoiato dalla vita che era in città per studiare spagnolo accompagnato dall’inseparabile Lonely Planet e da una logorroica ma simpatica voglia di chiacchierare, soprattutto sul tema delle elezioni presidenziali nel suo paese. Era assai eccitato dall’idea che presto avranno un presidente nero o una presidentessa (mmm..mai dirlo prima che avvenga davvero mannaggia), e si lamentava per il fatto di non poter andare in Bolivia perché la gente li odia. Lasciatemi aprire una parentesi: la questione è che da questo anno, dato che i cittadini boliviani per andare negli Stati Uniti devono richiedere un visto, lo stesso vale per gli statunitensi. E ovviamente, quando le loro stesse regole, gli vengono opposte, cadono dalle nuvole invocando l’odio (mmm). A parte che la gente non li odia, ma al massimo, e con tutta la ragione, ce l’hanno con il loro governo, colpevole da vent’anni di portare avanti una guerra contro la coltivazione della coca, pianta sacra agli indigeni e fonte di ingresso e sostentamento per centinaia di migliaia di famiglie attraverso la vendita delle sue foglie, legali, con cui si fanno dei te e si masticano per recuperare energie durante e dopo la giornata di lavoro. A quattromila metri, lavorare quattordici ore al campo non è esattamente semplice, la foglia di coca da energia. La cocaina non c’entra niente, è un derivato ricavato attraverso trasformazioni chimiche che prevedono, fra l’altro l’uso di benzina nella lavorazione. Insomma, una cosa naturale della pachamama e una delle cose più chimiche che esistano, niente in comune, tranne che per il governo nordamericano. Chiusa la parentesi.
L’altro personaggio degno di nota è un ragazzo peruviano, che viveva nel nostro ostello, che ci accompagnato in una passeggiata notturna alla scoperta della città che sta dall’altra parte del fiume, molto meno curata, molto più simile a una qualsiasi periferia latinoamericana. Tra chiacchierate più o meno allucinanti abbiamo macinato chilometri, per poi salutarci e augurarci buona fortuna.
Si riparte per La Paz!

martedì 29 gennaio 2008

Fare e pensare a La Paz

Tornato dal Brasile mi sono rapidamente rituffato nel lavoro, anche se, in questo primo mese dell’anno, prettamente a La Paz. E’stagione delle piogge in Bolivia, e si sente. L’accesso alle comunità del progetto è impossibile; alcuni dipartimenti del paese, Beni e Pando, stanno vivendo un’emergenza dovuta alle forti inondazioni e alla rottura di alcune tubature di acquedotti che stanno fortemente limitando l’approvvigionamento di acqua. Il pericolo di epidemie e i disagi stanno affliggendo il quotidiano di decine di migliaia di persone.
Rispetto al lavoro, ho rivissuto in questo mese l’atmosfera da “ufficio”, che tanto ha caratterizzato la vita nicaraguese. Diagnostici, alberi dei problemi e delle loro soluzioni, quadri logici, domande di finanziamento e via dicendo. Ho avuto anche la fortuna di partecipare ad un corso avanzato di Ciclo del Progetto, che è appunto la disciplina che studia le varie attività di cui mi sono occupato. Certo è importante formarsi e ascoltare pareri autorevoli, a volte però ho la sensazione di sconnettermi dalla realtà. E’ la stessa paura che non mi fa affrontare serenamente l’idea di re-inserirmi nel mondo accademico. Temo di rifinire in grandi discorsi annaffiati da del buon vino, che hanno, secondo me, il limite di fermarsi li. E’ la dinamica tra il fare ed il pensare. Un amico dice che ormai ha capito che lui è fatto per pensare, teorizzare. Io credo di essere nel medio. E non mi schiodo, un democristiano insomma, o udcese, o rosa bianchese, o udeurese, o libdemese o..lasciamo perdere meglio. Se certo il fare è importante, il pensare teorico è indispensabile. Sto cercando di capire se posso fare entrambe le cose.
Nel mezzo di queste pippe atroci ho passato delle settimane piacevoli. Si è festeggiato il compleanno di Chiara, il suo ultimo da nubile. Nonostante fosse un Lunedì abbiamo pensato di organizzare una festicciola in casa Utopia. Sorprendentemente, per essere Lunedì, sono arrivate una quantità impressionante di persone che hanno saturato la seppur grande nostra casetta. Tra queste la fauna era varia: c’erano gli amici boliviani che c’hanno onorato suonando delle musiche tradizionali con tamburi e fiati, i futbolinari, che non si schiodano dal calcio balilla nemmeno per brindare, i danzerecci, che nemmeno per un secondo abbandonano il nostro salottino ballerino, i bevitori, i chiacchieroni, l’antropologa del cibo, gli “ongeros”, cioè quelli che lavorano con ong, quelli delle organizzazioni internazionali. Tutte queste categorizzazioni risultano fluide, riuscendo addirittura queste persone a comunicare tra di loro! La festa è proseguita allegramente fino a che alle due, dovendo essere in ufficio qualche ora dopo, abbiamo iniziato a pulire mentre gli amici boliviani, che non lavorano, cercavano disperatamente una liquoreria nei paraggi per continuare a festeggiare. Per nostra fortuna non l’hanno trovata.
E’ stato il mese in cui ho iniziato ufficialmente a scalare, e mi piace. E’ una sensazione bella quella di accarezzare la roccia, sfiorarla cercando la giusta sfumatura per poi stringerla e spingere con gambe e braccia per salire, equilibrandosi con passi felpati e lungimirante gestione delle risorse energetiche. Il tutto all’aria aperta, con un sole benevolo e dei panorami notevoli. Lavoro permettendo cercherò di sviluppare questa nuova passione.La Bolivia, il primo fine settimana di Febbraio si ferma per il carnevale. Celebrazione caratterizzante questo paese, dove a parte le vesti, si realizzano delle sfilate ballate di confraternite e gruppi, soprattutto nella città di Oruro, tre ore al Sud di La Paz. Essendoci andati a scalare la settimana prima della sfilata, abbiamo approfittato per viverne l’atmosfera delle prove. Montano delle gradinate intorno al percorso della sfilata, la gente paga per il posto e passa il pomeriggio osservando partecipe il passare dei gruppi. Il tutto bevendo e lanciando globos, gavettoni; ogni persona partecipa all’eccidio, dall’ottantenne al bambino in carrozzina. E’ una guerra civile senza fazioni, tutti contro tutti! Le ragazze più sagge si coprono con dei ponchos, io pure, con una gobba fenomenale dovuta allo zaino che porto sulle spalle e che mi fa sentire ancor più osservato. Credo assomigliassi ad un mostro ambulante; nonostante ciò, vengo immediatamente chiamato a ballare da una fanciulla “simpatica”, nel senso sandonatese del termine che lascio dopo un pò, mentre lei mi dice con fare sensuale “non te ne puoi andare, resta con me!”L’alcool!! Trasforma pure le integerrime aymara in delle focose donne.

lunedì 7 gennaio 2008

Parallelamensci Bahia

Le vacanze di Natale oltre a regalarci Gesù, ci danno l’opportunità di recuperare un pò d’energie, riposando le membra. Con Chiara si è deciso di farlo in Brasile, nella regione di Bahia, l’arcicelebrato nordest brasiliano. Una decina di giorni da dedicare alla spiaggia, all’oceano, ai balli e ai piatti tipici della zona, dove nei secoli si sono mischiati gli autoctoni, gli schiavi provenienti dalle coste Africane e i bianchi colonizzatori. Certamente Bahia è una tra le zone più nere di questo grande paese, dove i discendenti dei fratelli africani sono riusciti a mantenere le loro tradizioni culturali e religiose.
Arrivati a Salvador la vigilia di Natale, riceviamo immediatamente una lieta sorpresa, un conoscente artigiano, che avevamo cercato invano di contattare per telefono, arriva all’aeroporto e tra grandi abbracci e sorrisi ci porta direttamente a casa sua, dove, trattati come figli, passeremo il Natale e alcuni momenti memorabili. Non mi stanco mai di sottolineare come l’ospitalità sia un concetto che, a seconda dei luoghi, assuma forme assai differenti. Se qui è scontato che uno sconosciuto ti porti a casa sua, ti ci faccia stare una settimana, ti rimpinzi delle pietanze più buone e di frullati di frutta paragonabili ai nicaraguensi, in altri luoghi ciò è molto meno scontato, per differenti ragioni che lascio ad ognuno individuare.
Il nosto amico artigiano, Roberto, è una persona fantastica, ha vissuto quattro anni in Bolivia vendendo le sue collane per strada, innamorandosi del paese fino a quando, per motivi di permesso, è stato rimandato in Brasile, dove sta lavorando per raccogliere i soldi necessari a tornare a La Paz. Ci ha fatto conoscere la città, alcuni scorci di spiaggia immersi nel verde, abbiamo ballato reggae insieme, mangiato le prelibatezze afrobrasiliane, bevuto cocktail fatti in casa mentre sua madre e le sue sorelle ballavano in salotto a ritmo di samba.
La musica è essenza di ogni persona qui, si canta e balla per strada, si accennano ritmi nel bus usando i sedili e cantandoci sopra; e i retaggi africani sono evidenti nelle movenze e nei ritmi. Gli amici di Roberto ti parlano come se fossi li da sempre e conoscessi tutto, invitandoti da tutte le parti, sempre con un sorriso e una vibra spettacolare. È un osservazione che si fa spesso quella della buona vibra delle persone, in paesi dove, tecnicamente, ci sarebbero molte ragioni per lamentarsi. Avrá avuto ragione mia nonna, in una delle sue frasi più celebri, quando diceva che “se stea meio cuando se stea pezo”, si stava meglio quando si stava peggio. L’importanza che si da a tante cose ritenute fondamentali nei paesi che chiamano sviluppati è assente, ci si diverte e ci si gode la vita, il tutto in un contesto di appartenenza familiare, culturale e nazionale, che lascia però totalmente aperta allo straniero la partecipazione piena. Non ci sono integralismi indigeni, non c’è nemmeno nichilismo, è semplicemente naturale. La santeria, la religione afro-brasiliana, non prevede inferni o paradisi, non è restrittiva o punitiva, nè pretende di evangelizzare. Consiglia di comportarsi bene, e rispettare il prossimo.
Credo che in tutto ciò il clima aiuti, la gente gira solo in costume, si sveglia con il sole che scalda, l’energia e il buon umore non possono mancare!
E infatti, quando da Salvador ci siamo spostati vicino Iticaré, sei ore più al sud, in una riserva naturale dove avevano organizzato un festival musicale, l’energia era palpabile. Questo festival, chiamato universo parallelo, si caratterizza per musica che si ascolta ventiquattro ore al giorno ininterrottamente, per corsi di varie discipline come giocoleria, yoga etc; il tutto immerso tra le palme, con l’oceano di fronte. L’accampamento era lungo mezz’ora di cammino, immaginatevi quindi la quantitá di gente; la cosa piacevole è che c’erano estrazioni sociali e di etá differenti, dal borghese, alla coppietta di vecchietti, dall’artigiano squattrinato allo straniero in vacanza. Le persone erano ben felici, conscie di condividere un evento musicale notevole. Come sempre ci si trova di fronte a dei personaggi indimenticabili: dal giovane che ascolta trance seduto su una sedia con accanto il suo amico ET, un pupazzo di plastica a grandezza umana con le sembianze di un extraterrestre, all’artigiano che per intortarsi una preda qualsiasi parla di revoluzione parallela (che si legge revolusao parallelamensci in brasiliano) e mi fa scoppiare a ridere per mezz’ora, da una mamma che girava con la figlia di diec’anni gia truccata e con piercing, entrambe vestite come la principessa Xena, che facevano le giocoliere, da un signore sui cinquantanni soprannominato la bestia per la sua bruttezza, a cui aggiungeva uno stile di vesti non proprio probabile, inspiegabilmente accompagnato da delle bellissime fanciulle, ad alcune dee dalla bellezza folgorante: una ragazza nera che al semplice guardarla ti si bloccava la mascella a una giovane mamma bianca con il figlioletto nudo in braccio. Ho notato che la moda fa da padrone anche a questi eventi: quest anno andava di moda il completino leopardato. Come ben sapete i bikini brasiliani sono famosi per la loro essenzialità, a questo aggiungeteci il leopardato. Insomma, il fine era identificarsi con Jane, compagna di Tarzan, appena uscita dalla giungla. E diciamo che ci riuscivano bene.
La musica andava dalla trance, alla goa, dal reggae alle percussioni e alla chill out, ce n’era quindi per tutti i gusti. Si andava a dormire alle quattro e ci si svegliava alle sette, un pò per il caldo e un pò per la musica. Ma presto fatto, ci si trasferiva in spiaggia nella zona chill out, e all’ombra di una palma si poteva riposare fino a mezzodí.
E cosí le due settimane sono passate rapidamente, un aereo della compagnia Gol, a riprova che il calcio è ovunque in Brasile, ci ha riportato in Bolivia. Belle giornate, intensamente rilassanti.