mercoledì 16 agosto 2006

Ometepe

Di ritorno da León muovo verso Ometepe, questa volta in compagnia di Elena, la filosofa che lavora con me. Chiacchieriamo e piano piano ci conosciamo; si scoprono differenze d’approccio comprensibili e rispettabili. Passo una notte a Managua prima di ripartire; trovo ospitalità a casa sua, nell’immancabile materasso riservato agli ospiti. Nella loro magione inizia a respirarsi il sentire casa. Hanno dipinto le finestre, alcune stanze, hanno un patio bellissimo, colmo d’alte piante che consentono una piacevole immersione nella naturalezza seppur vicini alle rumorose vie della capitale. M’addormento leggendo Animal Tropical di Gutierrez, racconto del rapporto vita-amore-carne tra le vie di La Havana. I Caraibi sono lontani da Managua. Sorrido leggendo, mi preoccupa il mio totale distacco dalla sessualità. Ho molti pensieri, molti. Al mattino mi sveglia il gatto di casa, minuscolo, ma già ammaliatore con le sue fusa e le sue leccate, bello come le piccole cose regalino il sorriso.Veloci alla stazione, bus per St. Jorgé, direzione Ometepe, raggiunta nel tardo pomeriggio dopo aver viaggiato in taxi, bus, barca, taxi e ancora bus. Ometepe è un paradiso.E` un isola che emerge dal Lago Nicaragua, con due vulcani, il Madera ed il Concepción, che dominano il paesaggio tropicale. Improvvisamente mi rendo conto d’essere ai tropici. Palme altissime, banani, platani, papaia e manghi; alberi altissimi, vegetazione fitta, immancabili macheti. Metto piede nell’isola accolto dalla musichina magica, fatto che si rivelerà purtroppo piuttosto casuale. Elena quando sente la musica mi guarda e sorride, consapevole di trovarmi saltellante, tra sguardi perplessi, ma pienamente felice; le persone iniziano a conoscermi. Le ultime note della canzone accompagnano un cavallo bianco selvatico che galoppa seguito da tre cani. Per raggiungere il nostro obiettivo, playa de los volcanos, percorriamo l’isola in bus che, come spesso in centroamerica, è uno di quei scuola bus gialli tanto usati negli Stati Uniti negli anni cinquanta e sessanta. Chiamare strade ciò in cui il bus s’arrampica è coraggioso, niente comunque paragonabile all’epico viaggio verso Leh, Tibet indiano. Odori e sapori, volti e colori. Sudore, corpi stretti, vestiti appiccicosi. Al passare del bus la gente interrompe che sta facendo, s’avvicina alla staccionata di casa, chi guarda solamente, chi saluta. Lo scorrere di una macchina è qualcosa di speciale, per cui vale la pena prendersi qualche minuto di pausa. L’autista ferma diverse volte per farsi la spesa, ovviamente tutto ciò è normale. Elena mi racconta che il padre di un suo amico, autista di bus a Bari, un giorno, mentre era in servizio, è passato con il mezzo per casa, è salito, si è fatto un panino ed è ripartito. Ha rischiato il linciaggio. Immaginatevi a Milano. Qui tutto bene, la gente chiacchiera tranquilla, chi approfitta per urinare, per fumare. Il concetto dell’attesa è sostanziale al paese. Scendiamo prima di Madera, mentre tutti i turisti proseguono; seguiamo il suggerimento di Lisy, che ci immerge rapidamente in un paesaggio da favola. Alcuni ragazzi nica, suoi amici, gestiscono un posticino con un dormitorio e alcune amache, fronte lago (a dieci metri dal lago). Intorno solo vegetazione e casette di legno dei locali. Nessuna Babilonia, solo naturalezza. Mi spoglio e, finalmente, m’immergo nelle acque tiepide del lago. Ci metto un pò a connettermi all’intorno, poi credo mi compaia un’espressione più idiota del solito, tanto che Elena, preoccupata, mi domanda se va tutto bene. Sono emerso dall’acqua e le ho fatto cenno di guardarsi intorno. Da un lato il lago che si estende a perdita d’occhio, di fronte la spiaggia e la mia amaca, a destra e sinistra i vulcani. Immergo e riemergo, è tutto vero! Sulla spiaggia, non lontano da me, due cavalli bianchi sgroppano felici, simbiotici. Sulla spiaggia, vicino a me, un enorme maiale passeggia placido. E`il maiale dei vicini, ottimo investimento per una famiglia, che lo venderà, dato che la carne di porco praticamente non si mangia qui, ricavando da viverci per un mese. In più, da vivo, il maiale è un compagno di giochi gradito dalla figlioletta.Il tramonto è memorabile, mentre il sole sta per scomparire una barca di pescatori esce a gettare le reti; sfondo arancione riflesso sul lago. Tra me ed il sole che ci saluta, i pescatori. Sentire che ci sono tutte le condizioni perché sia perfetto. Sentire che è bellissimo, ma non è perfetto. Passerà, passerà?Il senso di comunità è forte tra gli isolani. Nel posto dove stiamo, tra un’amaca, un bagno ed una chiacchiera, ogni sera danno lezione ai ragazzini che fanno più fatica ad apprendere ed agli adulti, così che con un diploma abbiano maggiore possibilità di trovare lavoro. L’educazione alternativa, retaggio della rivoluzione sandinista. Ad organizzare tutto ciò è Carlo, un nica di qui divorziato, alto un metro e mezzo e con una pancia delle stesse dimensioni. E’ il classico capo comunità, che gestisce molto, troppo, ma che nella contingenza sembra farlo bene. C’è poi Wendi, svizzera di trent’anni che, passata di qui sei mesi fa, all’inizio del suo viaggio in america latina ha finito per innamorarsi di Pancho, 19, e non è più ripartita. Lavora e aiuta i ragazzi a gestire il tutto; credo, sbagliando, sia stata accettata dai vicini, dato che, verso sera, giunge una donna con un pezzo di torta per lei e glielo offre sottolineando come venga dalla capitale! Gli occhi di Wendi si illuminano adoranti.La notte è notte di luna piena. Quanta energia, quanta fortezza, quanto. Sono attraversato da flussi divergenti, felicità per ciò che sto vivendo, che, in quanto tale, è imprescindibilmente legata ad altro, all’altro. Peccato non sia così per entrambi. Peccato di lastima e peccato di peccato.A tratti nascosta dalle nuvole, la luminosità della luna è tale che trascende l’ostacolo naturale per illuminare il lago. L’acqua, liscia in questo lato d’isola, accoglie la candela che accendo a Ochun e alle sue forme terrene. Candela, acqua dolce, meditazione, preghiera, pensieri, esasperata ed esasperante intensità. Perché tutto è così forte, perché trasudo sentire? Nel mezzo di ciò le nuvole si diradano naturalmente, ora si la spiaggia è illuminata a giorno. Ora si gli gnomi la popolano, spiritelli vagano felici a pelo d’acqua, chiacchiere immaginate, scambi desiderati. Traccio tre linee orizzontali, la candela come lingam brucia nel mezzo delle tre; perché si è Ochun, ma è anche Shiva. Perché i due sono legati da tempo, perché lo siano nel tempo. Perché sento che è così. Brucia candela, brucia. Sono ovattato all’intorno, compresso nel mio modo mondo.“La vida es el hecho cosmico del altruismo y existe solo como perpetua emigracion del yo hacia el otro” dicono Ortega e Gasset. La propria vita vale quello che vale, ma è il donarsi che la rende magica.Mi distendo a mirare le stelle, poche volte ne ho viste così tante, così luminose, lontano dall’inquinamento ambientale, lontano da babilonia. L’intorno è uccelli, un rospo, un cane che si distende placido accanto a me. Un cane in riva ad un lago. Riposiamo insieme.M’addormento sull’amaca cullato dalle note dolci delle onde che incontrano la spiaggia.Passeggiando l’isola si scopre ancor più quanto fitta la vegetazione sia: fiori, mille tonalità di verde, tratti indigeni, chiese, bimbi felici come bimbi.Biciclettando tra stimolanti sali scendi, raggiungo un luogo dove sono custodite rocce incise da iscrizioni e geroglifici risalenti alle culture indigene che vivevano questo luogo prima della conquista spagnola. Ho continuato scalando le colline dissestate di questa magica Ometepe, via veloce in discese dove il manubrio sembra volare lontano, tenerlo stretto, per evitare rovinose cadute. Raggiungo una spiaggia bianca che da sull’altro lato del lago, qui la marea è più forte, le onde piacevoli. Ci sono pellicani, aquile, cavalli, vacche, ovviamente cani.Mentre le giornate scorrono veloci, l’ultima sera accade qualcosa di inaspettato. Chiacchiero, meglio discuto, con due immancabili israeliane: è impressionante il lavaggio del cervello che tre anni di militare comporta in queste persone; vedo Wendi e Pancho, lei estremamente sorridente, lui con la solita espressione impenetrabile da uomo di mare. Con la semplicità delle cose grandi annunciano di essersi sposati. Tutti rimangono di sasso, nell’incertezza umorale sono il primo a congratularmi, rotti gli indugi tutti si avvicinano e sono baci abbracci e pacche sulle spalle. Le ragioni di questo matrimonio sono tante, certo si vogliono bene, certo ricevere la cittadinanza svizzera non è la cosa più semplice per un centroamericano senza educazione né lavoro. Ecco dunque che la colonialista svizzera ha pensato di risolvere la questione così. Dico colonialista perché man mano che la serata avanza ed i nica bevono ron emerge tutto il loro disappunto per quello che è successo. I due hanno comprato una torta, invitato parenti e vicini, ma a parte qualche bimbo nessuno è venuto a festeggiare. Pancho lascerà Ometepe destinazione cioccolato svizzero in Ottobre. Un’opportunità direte voi, immagino di si. Il suo volto sembra estraneo ai festeggiamenti, posso immaginare il miliardo di pensieri che gli scorrono in testa, l’attaccamento alla sua terra, la natura tropicale, le cose semplici, le amache, svegliarsi con il lago di fronte. Non riesco nemmeno a capire se sia innamorato o abbia solo pensato di cogliere questa opportunità e, come dice lui stesso, a ver que onda. Fatto sta che mentre Wendi se lo sbaciucchia e abbraccia tutto il tempo, lui non celebra affatto. Se ne va a dormire per primo. Lei è talmente innamorata che non coglie il grottesco. I miei sentimenti sono contrastanti verso ciò che sta accadendo, mi sento in equilibrio precario. Vado al lago, accendo una candela ai neosposi, non sorprendentemente, si spegne subito. Prego ugualmente per queste vite, per questo lago e per quest’isola.Ometepe, Ometepe..energie contrastanti.. Felicitaciones muchachos locos

lunedì 7 agosto 2006

Giornate indigene, serate afrocaraibiche, futuro reggae

Martedì, primo giorno di un Agosto che è inverno, emisferico e sensoriale. Managua festeggia il suo santo: Domingo. La città si sveglia presto con un fastidiosissimo sottofondo, lo scoppio di botti, immancabile colonna sonora di qualsiasi evento, religioso e non solo: una coppia di sposini, uscendo dalla chiesa, invece che dal riso, è accolta da rumorosissimi e molto poco scenografici fuochi d’artificio. Passeggio per le vie affollate da persone che aspettano il santo, portato a spalle da devoti che gli hanno chiesto qualcosa e ripagano il suo aiuto in questo modo. Molto simile a ciò che succede in Andalusia durante la “Semana Santa.” Molto meno borghese, molto più popolare. Ci sono dei neri figuri che s’aggirano per le vie. Sono ragazzi seminudi spalmati di grasso nero, o rosso. Rappresentano il diavolo tentatore (curiosa anologia con i colori del Fronte Sandinista) e circuiscono le persone nel tentativo di sporcarle, recitando il loro ruolo alla metà tra il serio ed il faceto. Il Santo passa, accolto da segni della croce ed applausi. In tutto ciò il nica medio è completamente ubriaco di ron. Il ron è un problema, la gente proprio non si rende conto di quanto ne beva, raggiungendo dei livelli di incoscienza che precedono quasi inevitabili scatti di violenza.Ovviamente una delle ragazze spagnole a cui Leo fa da guida viene derubata. Inizia così un, purtroppo interminabile, racconto del numero di occasioni e circostanze in cui tutti (non qualcuno, ma tutti) sono stati derubati o assaliti. C’è Iris, sorella d’Emilio, che viene derubata una volta all’anno da dodici anni. Quest’anno deve ancora succedere, attende l’evento con gioia. Emilio, menestrello cantastorie, condivide svariate situazioni in cui s’è trovato di fronte a ladri, per lo più ragazzini di dieci, quindici anni. Nella tristezza, due casi mi hanno fatto morir dal ridere: una volta camminava tranquillo sul marciapiede che costeggia una delle arterie principali della città con nello zaino computer, macchina digitale e portafoglio. Viene avvicinato da ragazzini muniti dell’immancabile metro di machete. Lui per schivarli si butta in mezzo alla strada, bloccando il traffico, sicuro di provocare una cagnara tale da far scappare gli assalitori. Se non che, il traffico si ferma, placido. Nessuno scende, nessuno suona, aspettano seduti comodi nelle loro macchine l’evolversi degli eventi. La violenza è spettacolo, anche grazie ad un nefasto programma televisivo che ogni mezzodì manda le immagini degli assalti che quotidianamente avvengono. Così che i ragazzini agiscono indisturbati. Risulta fastidioso, a parte l’indifferenza della gente, il fatto che, una volta andati dalla polizia per denunciare l’accaduto, accompagnato da testimone che conosceva l’assalitore, il poliziotto ha ben pensato di non procedere a nessuna denuncia. Causa: l’insufficienza di prove (!!!). L’altro racconto è ambientato di sera, in un barrio poco raccomandabile in cui finisce per caso trasportato da una discussione accesa con un amico che gli fa perdere di vista la direzione che stavano seguendo. Si sono trovati così nel pieno della notte in una delle zone di Managua in cui nessuno si avventura. Risultato, sono stati assaliti in pochi secondi e lasciati letteralmente in mutande. Immaginatevi questi due uomini che se ne girano in mutande cercando un taxi nel pieno della notte. Tutto ciò è abbastanza triste, ma spero di trasmettervi il lato divertente della faccenda.La giornata del Santo è trascorsa piacevolmente tra questi racconti e chiacchiere varie con Leo, Pelu, psicologa cilena, e Dominique, svizzera, insostenibile nella sua chiusura mentale (sapevate che la stragrande maggioranza degli italiani a casa fa il caffè filtrato? scordatevi la caffettiera, noi facciamo il caffè filtrato. Lo dice una ricerca che ha letto Dominique, ciò vale più di una bibbia o dell’umile parere di uno che in quel paese c’è cresciuto). Pranzo tradizionale, repollo (riso e fagioli fritti e strafitti, buonissimo). Emilio ci ha portato da Paolo, gringo trasferito in Nicaragua da una vita, che si è costruito una casetta semplice in cima ad una collinetta, da cui si vede tutta la città. Venendo con il camion dagli Stati Uniti si è caricato una roccia enorme che ha trovato per strada, così che, in cima alla collina, campeggia questo monolite. Sculture sparse per il giardino, tipicamente tropicale. Il personaggio, piuttosto simpatico, lascia sempre i cancelli di casa aperti, chiunque può entrare, porta il cibo, e si cucina e chiacchiera insieme. Bella vista, persone simpatiche, spagnole che festeggiano ugualmente le loro disavventure centroamericane.Sono uscito con Mariarosa la mezza nica, mezza spagnola. Ha lasciato Granada, dove viveva in Spagna, con una borsa di dottorato per il Nicaragua. Ha vissuto tra gli indigeni della costa atlantica, tra poco tornerà lì dove inizierà a lavorare con le comunità. Viaggia veloce per le vie di Managua con il suo maggiolone bianco, suona il clacson come un nica navigato, ma con una dolcezza particolare. Balla la danza del ventre da una vita, e si vede. Sorride, non troppo, c’è qualcosa che non riesco a comprendere in lei; poco male, mi auguro avrò modo di annaffiare questi semi d’amicizia appena piantati. Mi ha dedicato una serata per raccontare la sua esperienza con gli indigeni all’Est: ha compiuto una ricerca con un gruppo di studenti per una sorta di censimento dell’area. Il Nicaragua è spaccato tra Est ed Ovest, tra la parte indigena e afrocaraibica e la parte spagnola, dove Managua si trova. Le strade non arrivano all’Est; ad un certo punto si navigano i fiumi con delle lanche, barchette di legno che viaggiano ad una velocità esagerata. Questa difficoltà nei collegamenti ha mantenuto marcate le diverse identità, nonostante la globalizzazione imperante, risultato del fino lavoro della CIA negli anni ottanta e a seguire. Nella costa atlantica, al Sud, si parla inglese, si balla reggae. Andrò sulla costa atlantica, ma non subito, voglio potermi fermare abbastanza da capirci qualcosa, fatto non possibile ora. Bella la diversità, stimolante.A questo proposito ho conosciuto due gringo di New York, che girano video reggae nella costa e stanno provando a portare il reggae a Managua. La coincidenza voleva che solo qualche sera prima avessi parlato con il gestore dell’ArtCafè a questo proposito. Così ci siamo aggiornati per discutere meglio i termini.. il reggae sta arrivando a Managua.. già la prossima settimana, sfruttando la musica nel portatile mio e di alcuni amici ci sarà una serata dedicata alla musica di Jah. Sempre che non mi rubino il portatile da casa al locale. Fatto non escludibile in alcun modo.Per festeggiare un mese in Nicaragua, sono andato a León, due ore a nord di Managua vicino alla costa pacifica, con Lisy la belga, al mio primo concerto reggae nicaraguese. Abbiamo trovato una camera a due euro in un posticino stupendo che si chiama Casa Vieja, una magione tipicamente nica con la foto di mille avi appese, le sedie a dondolo, piante e musica che risuona tutto il giorno. Il concerto era organizzato per i venticinque anni dalla morte di Marley in un localino della città. Dopo un breve shock iniziale, legato all’assenza del minimo spazio per ballare, ho ben pensato di fregarmene. E’ iniziata la proiezione di un concerto di Marley, due ore di pura energia. Vedendola da fuori la situazione era strana: c’erano un pò di stranieri in vacanza impegnati a baccagliarsi vicendevolmente, moltissimi nica, giovani e meno, impegnati a riempirsi di alcool, io Lisy e l’organizzatore del concerto che saltavamo tra i tavoli ballando felicemente. Tre folletti guidati dalla musica felice, danze! Quando il concerto è iniziato qualcuno in più si è mosso, ma c’era questa immagine che m’è rimasta impressa. Ad un certo punto ho dato le spalle al palco per vedere che succedeva, e mi sono trovato di fronte qualcuno che ballava, subito dietro un muro infinito di braccia incrociate su corpi immobili. Una barriera dell’ovest verso la musica dell’est. Segregazione culturale. La notte è stata piena di danze, di un nica che ballava benissimo, di un brasiliano capoerista che ci ha provato un sacco con Lisy e non trovava ragione del fatto che lei volesse solo ballare. Scene già viste. Poi Alex, un rimastino dominicano, altrettanto ottimo ballerino, oggettivamente belloccio con dread che ha fatto le smorfie a Lisy per le sue treccine finte (con tutte le ragioni). Alex che dice d’essere un narcotrafficante, Alex che non può più entrare in quel locale perché è successo qualcosa, Alex che sorride.Lisy gioca con le palline e con il Diablo, speriamo di imparare, speriamo di sorridere.

martedì 1 agosto 2006

Connessioni

tempo scorre rapido tra queste terre fertili.Un'altra settimana è passata, e tra qualche giorno sarà già un mese di vita nella terra di Sandino. La scorsa domenica sono stato con Gaia in giro per il Sud. Pick up e tanta allegria. Lei è un’italiana di trent’anni che ha lavorato qui un anno e mezzo ad un progetto per la ricostruzione di case nella zona colpita dall’uragano Mitch. Lunedì è dovuta tornare in Italia vista la fine del contratto..la precarietà! come descrivere i suoi occhi nell’ultimo giorno trascorso qui. Persone, paesaggi, calore che, forse, non vedrà né sentirà più. Certo ce ne saranno altri, certo. Siamo stati a Granada, cittadina molto pulita e piena di giovani gringo che vengono a studiare spagnolo. Granada è piazze, edifici bianchi e arancioni, è Messico, è manghi. Da sul Lago Nicaragua, il più grande del centroamerica. Qui un giorno prenderò il battello che mi porterà tra le isole magnifiche che caratterizzano questo lago. Di ritorno ci siamo fermati a Masaya, che prende il nome dal vulcano che la circonda. Sotto Masaya c’è una laguna chiamata d’Apoyo. Immaginatevi la vista: tutto è verde perché è stagione di piogge, alzate gli occhi e c’è un enorme vulcano, abbassateli un pò, piano piano, godendovi il verde; improvvisamente è acqua, una distesa senza fine. Vulcano, bosco e laguna. A Masaya c’è pure un mercato famoso per le amache, tutte intrecciate pazientemente a mano, coloratissime. Perdersi tra i mercati, che gioia. Chiudere gli occhi e lasciarsi avvolgere dai suoni, le signore che vendono cibo, gli uomini che cambiano dollari, le venditrici di artesania. Chiudere gli occhi e respirare i sapori. Aprire gli occhi e godersi i volti, i bimbi, gli storpi, i colori accesi.Gaia va, abbracci, sincero affetto. Piccoli consigli per il ritorno in Babilonia.Anche questa settimana la Cinemateca ha offerto un programma piacevole: sei giorni dedicati alla proiezione di film cileni. Il martedì, alla prima, giungo con Elena e scopro che l’entrata è ad invito. Poco male, come chele (bianco) ci sono dei benefici (e non vi dico i fastidi etici nell’usufruirne) e così mi godo la pellicola tra inni nazionali, ambasciatori, bicchieri di vino cileno e discussioni sul cinema cubano. Marcio, il direttore ventottenne della cinemateca ha studiato regia a Cuba, chiacchierare con lui è sempre piacevole. Mi ha raccontato che il giorno in cui dovevano proiettare il documentario su Fidel, in realtà non era saltata la luce, ma avevano rubato il proiettore! La sua frustrazione nel raccontarlo era tanta, e lo posso ben capire. E’ una delle persone che si sbatte per creare e offrire cultura, e qui comprare un proiettore non è esattamente alla portata di tutti. Era pure arrabbiato perché dice come la polizia in realtà non stia investigando, come creda ci siano intrecci loschi. C’erano poi un numero di ragazzine già donne, certamente non timide nell’approcciarsi. Direi che la riservatezza incontrata in India, in Centroamerica si concentra in Guatemala, dove sì la componente indigena ha un approccio alla sessualità molto intimo. Qui no, ma le giovini cadono male con me, non è proprio area. Certo però si imparano le dinamiche di relazione, l’osservazione partecipata trionfa. La serata è proseguita in chiacchiere. Ho conosciuto Natalie, nica ventottenne, appassionata d’India; lavora in una clinica a Matagalpa, al Nord. Persona interessante, con due gemelline. Femminista, attivista, una buona compagna per quando visiterò la città.E questa settimana è coincisa, finalmente, con la prima visita al campo. Mi ha fatto proprio bene, lascio a voi immaginare come mi sento rinchiuso in ufficio tutto il giorno. Certo inondo la sede di ACRA di reggae e musica in genere, ma ho bisogno di persone, di stringere mani e incrociare gli sguardi di chi realmente è protagonista di questo mondo che si chiama CentroAmerica. E allora vado nel distretto VI, il più grande di Managua, con due rappresentanti del dipartimento ambiente dell’Alcaldia. Sorridono sempre, scherzano, sono belli da vedere. Ascolto con attenzione cosa mi dicono per poi riproporre le stesse domande ai lavoratori delle microimprese che raccolgono l’immondizia e la riciclano. Per una volta, la differenza tra quello che l’Alcaldia racconta e la verità non è poi così enorme; normale che per ricevere maggiori fondi l’Alcaldia si inventi il paradiso. Ogni microimpresa ha una giunta direttiva. Quella che visito è in area sandinista. Le persone con cui discuto, una donna ed un uomo, mi danno il benvenuto nelle loro baracche; mi parlano della mancanza di mezzi, di come le biciclette si rompano sempre. Ma sono attivi, si arrangiano, sono creativi, soprattutto credono in quello che stanno facendo. Soluzioni fantasiose ma efficaci. La donna porta degli occhiali, una lente rotta. Vengo risucchiato dall’intensità del suo sguardo, attraverso quella lente, direttamente dentro di lei. Viaggio rapido tra visioni di umiliazioni, di sofferenze, di orgoglio comunque intaccato. Credo che così tanta energia non m’attraversasse da tempo, da una notte di un tempo non lontano, tra sabbia, vento ed anime. Tutto è terra, fango, sporcizia, puzza. E gli uomini sorridono. I lavoratori, giovanissimi, girano per le zone loro assegnate con dei tricicli (biciclette a tre ruote con un grande cesto davanti dove raccolgono i rifiuti). Sono neri, di pelle, di fango e di polvere. Denti gialli che traspaiono dall’immancabile risata, a volte deviata dalla colla che tirano. I bambini. Questi giorni sono segnati anche dal pensiero al Libano, alla mattanza portata avanti tra la semi-indifferenza generale da Israele. Oggi marciamo sulla sede dell’ONU. I bambini! I bambini! “Il giornale” di oggi titolava “Gli Hezbollah fanno uccidere 37 bambini”, certa gente è senza vergogna. Come si fa ad abbattere un edificio pieno di bimbi? Ma più continuano più il loro karma scende, pagheranno tutto.Questa è stata anche la settimana in cui ho trovato casa. Nelle prossime settimane si libera un posto in una casa gialla, nella CentroAmerica, proprio l’area in cui vi dicevo mi sarebbe piaciuto stare. Vivrò con Roberto, un nica di ventotto anni già professore di informatica all’Università, e Lisy, belga qui per un anno come volontaria in una associazione che lavora con i bambini di strada. La casa è tipicamente nica, uno spazio unico in cui poi hanno ricavato delle stanze. La mia sarebbe la più grande, ma quello che importa sono i patii, il verde, il fatto che sia tutta dipinta di giallo, a cui aggiungerò solo dell’arancione per unire in colore la sacralità del bene. Si chiacchiera tra amici al ritmo lento della sedia a dondolo, accompagnati da musica rivoluzionaria nica e reggae (per mia fortuna anche Lisy è appassionata). Ci si saluta tra vicini, ci si muove a piedi, ci sono i ragazzi che graffitano i muri. Sono ad una quadra dalla casa di Elena, Leo e l’artista Emilio. E poi che bellezza ricevere come saluto “hola mi amor” dall’enorme signora della pulperia. Una volta trasferito sarò a mezzora a piedi dal lavoro, ma vista la pesantezza dei pasti non può che essere un bene per l’equilibrio biologico del mio corpo.Non sono poi riuscito a resistere e ieri sono tornato vicino Masaya, questa volta proprio alla laguna d’Apoyo. Un incanto, quel tipo d’incanto magico, che scuote, dà la pelle d’oca e inebetisce l’espressione del viso. Quell’incanto che conosco bene. Vista dall’alto già era bellissima, ma dal basso, da dentro, è semplicemente, meravigliosamente, sconcertante. Per raggiungerla ho fatto autostop con Lisy, due famiglie sorridenti ci hanno caricato nel retro dei loro pick up e via, vento in faccia come canta la banda bardò. Avevo intuito la bellezza del paesaggio già durante il viaggio, ma una volta scesi, salutati affettuosamente i benefattori, sono stato completamente circondato dal verde della boscaglia tropicale. Alberi d’un paio di metri di diametro, alti non so quanto, vegetazione varia e diversa, sole che batte e ombra che rigenera. La laguna, dall’acqua ancora miracolosamente vergine all’inquinamento, contiene numerose specie di pesci che si trovano solo qui, non in CentroAmerica, ma proprio solo qui. Ho mangiato manghi e pitaya, un frutto viola che sembra un carciofo ma è una manna dal cielo. Bagnarsi tra queste acque un onore, oltre che un rinfrescante piacere. Leggo della rivoluzione sandinista, chiacchiero con Lisy, vivo l’ennesima connessione con una persona a cui voglio bene, questa volta nella forma della tradizione afrocaraibica. Ormai da tempo ho smesso di domandarmi perché, accetto quello che accade, consapevole che un percorso è disegnato e io posso solo giocare di neretto. Raccolgo e regalo fiori viola alle signore che, dopo un po’ d’imbarazzo, mi sorridono felici, a differenza dei loro uomini che mi guardano piuttosto storto. Ma nessun machete compare, tutto è bene.