martedì 18 dicembre 2007

Riflessioni esogene

Dedicare del tempo a pensare a come trasmettere che cosa rappresentino due mesi in un paese ai piú e al medesimo poco conosciuto mi ha fatto pensare a delle istantanee che, nella loro specificitá ben descrivono l’apparire ed il sentire di questo topos variegato.

Iniziamo dalla cittá: l’arrivo a La Paz, implica il passaggio per El Alto, dove é situato l’aeroporto. El Alto é una cittá sorta intorno alla valle dove si distende la capitale, arrampicandosi sui monti che ne disegnano il profilo, risultando essere ormai quasi piú grande di La Paz stessa. La discesa tra le ripide vie che rapide portano al centro della cittá, costellato di grattacieli anni settanta e ottanta che fanno imprecare contro l’immaginario assessore all’urbanistica dell’epoca, si caratterizzano per le grandi differenze tipiche delle capitali e delle cittá cresciute in fretta. Si passa dalle case di adobe, un misto di fango e paglia da cui ricavano mattoni, a delle villette che tanto vogliono assaporare l’american dream nella loro sindacabile architettura.

Per le strade di Sopocachi, la zona della cittá dove é situato l’ufficio della ong, gli opposti non mancano. Di fronte alla sede del Programma Mondiale di Alimenti, il famigerato World Food Programme, giusto di fronte a macchine sproporzionatamente grandi, seduta su una sedia instabile, sta fissa una signora spettinata dal rossetto shocking che vende panini fatti in casa con pomodoro e avocado, vicino a lei un signore che, in un carretto dalle ruote sgonfie, vende piantine e fiori. Verso sera, nella stessa piazza, compare un signore ben piazzato che apre il suo baracchino, famoso per le salcipapas, un piatto a base di salsiccia e patate fritte condito con abbondanti salse che escono da improbabili contenitori di plastica colorata che tanto ricordano i porcari italiani, e che, ugualmente, dicono siano ottimi per saziare la fame chimica, fedele compagna di viaggio. Camminando solo un paio di minuti piú in giú del salcipaparo, si arriva a Plaza Avaroa, dedicata ad uno degli eroi nazionali boliviani, famoso per essere morto in battaglia contro i cileni, nella guerra in cui Bolivia perse l’accesso all’Oceano Pacifico. Tutto intorno a questa piazza pullulano i locali per occidentali, dove un caffé costa tre volte un panino della signora shocking o del salcipaparo. Sempre intorno a questa piazza amici fanno i giocolieri guadagnandosi il pane quotidiano con spettacoli di clave e palline, chiedendo un peso a uomini d’affari nascosti dietro i vetri oscurati dei loro suv.

Il mercato di Sopocachi é una esplosione verticale di bancarelle da cui a fatica, sommerse tra patate e verdure, si scorgono le cholite, cosí chiamano le donne che vestono tradizionalmente; appena piú in la ci sono i lustrascarpe, perennemente incapucciati per limitare gli effetti negativi del respirare le esalazioni della vernice che utilizzano per lavorare. Le strade sono stracolme di microbus e bus, tutti con una onorata carriera alle spalle in paesi come Corea o Giappone che, una volta considerati da buttare, vengono regalati dai rispettivi governi ai membri di cooperative di trasportatori di paesi in via di sviluppo, per farsi ben volere dalla gente e, piú subdolamente, come sempre con le donazioni, per fare lobbying sui governi locali per ottenere accordi economici vantaggiosi. La vita utile del mezzo qui raggiunge livelli inimmaginabili, essendo spesso il mezzo considerato come un regalo di Dio, da rispettare e curare certosinamente.

Muoversi nei microbus, nel formicaio di strade trafficato che é La Paz, da sempre il piacere di guardarsi attorno. In ogni marciapiede c´é un albero di mimose, ogni isolato una borsa abbandonata per terra dice plomero-electricista, persone che lavorano alla giornata lasciando la borsa degli attrezzi li e intanto girovagando nei dintorni nell’attesa che qualcuno li chiami. Spesso ci sono delle prove di ballo per strada. Tradizionalmente per celebrare qualsiasi festivitá, religiosa e non, qui ballano danze tipiche. Nei giorni precedenti, dai piú piccoli fino ai piú anziani, occupano le strade per esercitarsi; la cosa divertente é che tutti rispettano questo costume perció é tipico stare un bel pó fermi aspettando che i protagonisti terminino il loro ballo. Fra l’altro queste situazioni sono sempre buone per celebrare. E qui si celebra bevendo; tipica immagine é quella di una cholita che tra una giravolta e l’altra si trovi spaparanzata per terra per aver perso l’equilibrio, il tutto tra le risate dei compagni e di lei stessa.

mercoledì 28 novembre 2007

Yungas

C’é poi un altro campo, quello delle altre comunitá dove lavoro, al nord di La Paz. Nello stesso tempo in cui si raggiunge Cairoma, si arriva nello Yungas, vicino Caranavi. Se immaginate di addormentarvi appena partiti e svegliarvi giusto entrando a Caranavi, cosa impossibile visto lo stato del tragitto, rimarreste senza parole. Lo Yungas é una provincia che si presenta completamente diversa dalla capitale o dalle comunitá intorno a Cairoma. Fa gridare Nicaraguaaaaa!!! La vegetazione ed il clima sono assolutamente tropicali, assomigliando tantissimo alla realtá subtropicale centramericana. Gli alberi e la frutta, pur chiamandosi differentemente sono gli stessi. E ammetto che chiamare un avocado, che in nica é aguacate, palta ancora non mi riesce bene. Ma d’altronde ci si abitua. L’importante é poter mangiare questa squisitezza che qui quasi non riescono a vendere perché ce ne sono troppi. E poi ci sono i pappagalli e una varietá d’uccelli incredibile. Ovviamente ci sono anche le controindicazioni: zanzare enormi e micidiali, boa, vipere e chi piú ne ha piú ne metta. E in tutto ció, a fagiolo, c’era da identificare una fonte di acqua per un progetto di potabilizzazione: un ora di cammino in mezzo alla giungla sotto la pioggia che a stento riusciva a trapassare la fitta boscaglia, tra miliardi di suoni, per lo piú sconosciuti, che un pó facevano sentire in un mondo fatato e un pó facevano gelare la schiena non potendo identificare al suono un animale piú o meno mortale. E a Caranavi, dove alloggiamo in missione, c’é la piscina. Ora non é che di colpo mi son fatto piccolo borghese jacuziano. Il fatto é che in Bolivia non c’é il mare e andare in piscina a La Paz per poi uscire e doversi mettersi sei strati di maglioni di lana mi fa un pó tristezza. La possibilitá di fare il bagno in un sacrosanto costume muorendo di caldo ti da una carica energetica e di buona vibra totale, oltre a riaprire miliardi di fantastici ricordi legati a Nicaragua: la laguna d’Apoyo, Pochomil, León, Corn Island.

Il tutto, comunque, ad almeno duemila metri d’altezza.

Differentemente da Nicaragua la cultura indigena peró, assai riservata, non porta all’inevitabile confronto con la gente. La parola chele, con cui si descrive il bianco in centramerica, perenne colonna sonora del passeggiare per Managua, é assolutamente scomparsa dal vocabolario quotidiano. Qui si chiamano gringos indistintamente tutti i bianchi, e certo l’Esserlo crea delle barriere. Nonostante sia piacevole e formativo passare le serate con compagni boliviani aymara o quechua, é evidente che il non essere indigeno sia una discriminante per una totale accettazione come conpadre, come qui si definiscono le amicizie solide. Ho la sensazione che ci sia un pó di contro razzismo o forse é semplicemente un mantenere le distante. Certo é che la sensazione di sentirmi a casa che dopo non troppo tempo si era naturalmente sviluppata con i compagni nica, con tutti i suoi pro e contro, sono ancora molto lungi da intravederla qui. Si creano delle complicitá, ma mi paiono monche. Probabilmente saranno solo pippe mentali; sicuramente é ancora troppo presto per capire queste dinamiche.

Il fatto, peró, d’avere questa spettacolare varietá climatica m’affascina molto. In poche ore si puó passare da un clima rigidissimo ed un ambiente brullo, al tropico. E in tutto ció entra una diversitá di popolazioni indigene che non ha pari. Con la Costituzione in approvazione, Bolivia sará dichiarata uno Stato plurinazionale, indigeno e comunitario; sintesi delle incredibili differenze che questo paese al centro di Sud America racchiude.

giovedì 15 novembre 2007

Il campo

Le mansioni lavorative mi stanno portando a trascorrere molto tempo nelle comunitá, al campo come il castigliano ben definisce queste missioni. Una decina si trovano un centinaio di chilometri e sei ore di macchina a sud di La Paz, un paio altrettante ore al Nord. Una volta usciti dalle strade principali inizia il magico mondo dei saltinbanco. Il tragitto che conduce alle comunitá al sud, nonostante le macchine di Acra non siano niente male, permette un’unica azione-reazione: rimbalzare da un sedile all’altro, spinti dalle fantastiche irregolaritá del fondo stradale in terra e sassi. Cosí, dopo il tragitto, si é puri saltinbanco, uomini e donne dalle molle incorporate. A parte questa piacevole caratteristica, tra un rimbalzo e l’altro, si riesce ad apprezzare un panorama che lascia senza fiato. Nelle ore di viaggio si passa dai tremila ai quasi seimila metri, passando da un clima sostenibile ad uno dove si fatica realmente a respirare; da colline verdi a pura terra brulla e innevata, dall’incrociare animali noti come vacche, cani e pecore, all’incontro con i lama, veri padroni delle alture.

Cairoma, sede del municipio a cui si riferiscono le comunitá dove lavoro, non é esattamente una metropoli. Paragonandola ad una cittá occidentale non cé gran fonte di divertimento che non sia l’alcool, che i locali consumano ad ogni occasione utile, indipendentemente siano le nove del mattino o le dieci di sera. Cosí quando non sono alle comunitá e non posso lavorare al computer perché salta l’energia elettrica, il passatempo principale sono le passeggiate tra i campi di patate, in questo periodo in fiore, che offrono delle viste spettacolari, con l’Illimani, montagna che da sola meriterebbe un libro per tutte le storie strane e gli accadimenti inspiegabili che la caratterizzano. I paesaggi sembrano disegnati dai bambini, infinite montagne con il sole e le nuvole che spuntano in cima, di tanto in tanto delle case con il loro campicello e degli esseri che alla distanza potrebbero essere uomini, ma che fino a quando non ci si avvicina non é dato confermarlo, potendo rivelarsi essere animali o spaventapasseri.

E poi c’é il tempo per l’analisi degli esseri curiosi che popolano questo paesello: la signora dalle lunghe trecce bianche che possiede la gallina da una gamba sola, il gallo piú grande e pauroso che si sia mai visto, le panchine della piazzetta che pendono da un lato come le persone che ci si siedono, le capre dispettose che scappano dal gregge e costringono le cholite a rincorrerle imprecando chissá cosa in aymara, le pozzanghere di fango di cui non cé modo di vedere il fondo, gli ubriachi che gongolano fino a cadere addormentati, le ragazzine che appena ti vedono iniziano quella risatina che racchiude chissá quali significati, i maiali che scorrazzano in gruppi e fanno lo stesso effetto d’incontrare le maras salvadoreñe, e poi c’é Persi.

Persi é l’uomo senza dubbio piú gobbo ancora in vita in questo nostro mondo. In sostanza ha le gambe dritte e poi é completamente recrinato in avanti, riuscendo a malapena a vedere davanti a sé perché l’inclinazione del volto gli offre piú che altro lo scenario dei suoi piedi rugosi. Chi sia Persi e cosa faccia, come viva, é per me un mistero. Lo si incontra sempre appallottolato su un sasso o una pietra, un pó all’ombra e un pó al sole. Non riesce ad esprimersi bene, perció tutti i suoni che emette rimangono incomprensibili a me, ma soprattutto ai compatrioti. Credo sia uno gnomo, un essere di un mondo diverso che é stato catapultato dai boschi direttamente a Cairoma. Sono convinto che di notte monti sul suo nastro trasportatore e vada a festeggiare tra compagni piú simili a lui che capiscono che dice, cosa vuole. Persi.

mercoledì 31 ottobre 2007

United Fruit and the CIA in GUATEMALA

by Manu Saxena

Our ever so-timely corporate press has at last seen fit to give us some of the facts about what happened in Guatemala--this time after only a short 30-40 year time lag. Both the New York Times and NPR ran stories in the last couple of weeks describing the truth commission report which found the Guatemalan military guilty of "acts of genocide" against the indigenous Mayan people. Out of 200,000 people killed, the report found the military responsible for 93 percent of the killings. The NYT report included the interesting tidbits that the CIA aided the Guatemalan military forces, and that American "counterinsurgency" training was a key factor in causing the human rights violations that occurred. These human rights violations included the use of, among other things, forced disappearances, the systematic rape and murder of women, and the extermination of the civilian populations of entire villages as weapons of war.

NYT deserves some credit for reporting on this subject (and on the front page, no less!), as does NPR. Even the Clinton administration deserves some praise (shocking, but true) for declassifying and making available several documents to the Guatemalan Historical Clarification Commission (the U. S. was, in fact, the only country to do so). Unfortunately, none of these reports reveal the full picture of U.S. involvement in Guatemala, a picture that's been available for the past 30 years. Contrary to the whitewashing by Donald Planty, the U.S. ambassador, who said, "...these were abuses committed by Guatemalans against other Guatemalans--the result of an internal conflict" (NYT), the U.S. national security state supported, equipped, and actually created the post-war Guatemalan military state. Corporate involvement and encouragement was there from the start.

A democratically elected President, Jacobo Arbenz, took office in 1951 with a program of land reform. Before his program was put into effect, 2.2% of the Guatemalan landowners owned 70% of the arable land, and the average annual per capita income of farm workers was about $87. Under the Arbenz program, uncultivated land was given away to around 100,000 landless peasants; in addition, he instituted a program of support for union rights and other social reforms. So of course he had to go.

One of the principal architects of his downfall was the United Fruit Company. Both the Truman and Eisenhower administrations were lobbied aggressively by executives of the United Fruit Company, which had friendly ties with many Congressmen and State Department officials. In addition, Eisenhower's personal secretary was the wife of United Fruit's public relations director, and Under Secretary of State Walter Smith was looking for a job with United Fruit while he was still in the administration. United Fruit monopolized Guatemala's banana exports and owned much of the country's communications system; its control over the economy was threatened by Arbenz's programs. But what must have especially raised United Fruit's ire was the land reform program: United Fruit wanted $16 million for the portion of its land the government was expropriating--land which United Fruit itself valued at only $525,000--exactly what the Guatemalan government was offering for it.

The first CIA plan to overthrow Arbenz was formulated in 1952, but wasn't implemented until after Eisenhower became president in 1953. The CIA approached right-wing malcontents in the military and supplied them with weapons, with a generous $64,000 donation by United Fruit. The resulting uprising was defeated, and the role of United Fruit came out in the trial of the rebels.

The role of the CIA was revealed in 1954, when plans of yet another coup were discovered and published in Guatemala's newspapers. The State Department and U.S. newspapers such as the NYT pooh-poohed the charges, naming them communist propaganda. There were, of course, some communists in the Arbenz government, but not very many. Out of the 51 seats that made up the Arbenz coalition, a total of 4 were held by communists, and Arbenz himself wasn't a communist--not that that would have excused the attempt by the U.S. to overthrow a popularly elected government.

The CIA, of course, implemented its plans and proceeded to launch a massive propaganda campaign against the Guatemalan people. One example: United Fruit company representatives circulated pictures of mutilated bodies claiming they were victims of atrocities committed by the Arbenz regime, all the while knowing this was untrue. On June 18 the CIA dropped leaflets demanding Arbenz resign, and then proceeded to attack that afternoon, its planes strafing the National Palace and dropping bombs. An insidious propaganda campaign led the people and armed forces to believe they were being invaded by an overwhelming force, and finally Arbenz was forced to resign in favor of the military.

The results of the military takeover were to be expected. Thousands of people were arrested on suspicion of being communist, many of whom were tortured and killed. Labor organizers for United Fruit were murdered, the banana unions and other labor organizations were banned, and the land reform program was reversed. Political parties and peasant organizations were also banned, newspapers were closed, and politically unacceptable books were burned.

This was the beginning of the CIA's role as protector of the rich against the poor in Guatemala. Those who in later years rebelled against the military rule were the poorest of the poor, typically the indigenous Mayan people. Indeed, because of their poverty, the Mayans were profiled as being natural supporters of the guerrilla movement, which is why the military (aided and abetted by the CIA) conducted their campaign of genocide to wipe them out, in 36 years of the most brutal war in Central American history. (One of the most fascinating accounts of the civil war can be found in Jennifer Harbury's book, "Bridge of Courage.") It's an amazing tribute to the power of the human spirit that the military didn't succeed, and that, as of 1996, the guerrillas now have their own political parties.

Nevertheless, human rights violations in Guatemala continue despite the current cease-fire; Bishop Gerardi was murdered just last year for bringing some of these violations to light.

martedì 30 ottobre 2007

Burma: Children Bought and Sold by Army Recruiters

UN Security Council Group to Consider Violations Against Children in Burma

Facing a military staffing crisis, the Burmese government is forcibly recruiting many children, some as young as age 10, into its armed forces, Human Rights Watch said in a report released today.
Burmese military recruiters target children in order to meet unrelenting demands for new recruits due to continued army expansion, high desertion rates and a lack of willing volunteers. Non-state armed groups, including ethnic-based insurgent groups, also recruit and use child soldiers, though in far smaller numbers.
The brutality of Burma's military government goes beyond its violent crackdown on peaceful protestors, said Jo Becker, children's rights advocate for Human Rights Watch. Military recruiters are literally buying and selling children to fill the ranks of the Burmese armed forces.
Based on an investigation in Burma, Thailand and China, the 135-page report, "Sold to be soldiers: the recruitment and use of child soldiers in Burma", found that military recruiters and civilian brokers receive cash payments and other incentives for each new recruit, even if the recruit clearly violates minimum age or health standards.
One boy told Human Rights Watch that he was forcibly recruited at age 11, despite being only 1.3 meters tall and weighing less than 31 kilograms (70 pounds). Officers at recruitment centers routinely falsify enlistment records to list children as 18, the minimum legal age for recruitment. Recruiters target children at train and bus stations, markets and other public places, and often threaten them with arrest if they refuse to join the army. Some children are beaten until they agree to volunteer.
The government's senior generals tolerate the blatant recruitment of children and fail to punish perpetrators, said Becker. In this environment, army recruiters traffic children at will.
Child soldiers typically receive 18 weeks of military training. Some are sent into combat situations within days of their deployment to battalions. Child soldiers are sometimes forced to participate in human rights abuses, such as burning villages and using civilians for forced labor. Those who attempt to escape or desert are beaten, forcibly re-recruited or imprisoned.
All of the former soldiers interviewed by Human Rights Watch reported the presence of children in their training units. Thousands of children are present in the army's ranks, although their prevalence varies considerably by battalion. Particularly in some newly formed battalions, children reportedly constitute a large percentage of privates.

Human Rights Watch expressed concern that the military's recent crackdown on monks and civilian demonstrators may make children even more vulnerable to recruitment.
Even before the recent crackdown, many young adults rejected military service because of grueling conditions, low pay and mistreatment by superior officers, said Becker. After deploying its soldiers against Buddhist monks and other peaceful demonstrators, the government may find it even harder to find willing volunteers.
In 2004, the military government, known as the State Peace and Development Council (SPDC), created a high-level committee to prevent the recruitment of children into the military. However, Human Rights Watch found that in practice the committee has failed to effectively address the issue and devoted most of its efforts to denouncing outside reports of child recruitment. As recently as September, the state-run media announced that the government was working to reveal that accusations of child soldier use were totally untrue.
The government's committee to address child recruitment is a shame, said Becker. Instead of denouncing credible reports of child recruitment, the government must address the issue head-on. It needs to demobilize all of the children in its forces, and end all recruitment of children.
The majority of Burma's 30 or more non-state armed groups reportedly also recruit and use child soldiers, though in far smaller numbers. Human Rights Watch examined the policies and practices of 12 armed groups and found that some, like the Karenni Army and Karen National Liberation Army, have taken measures to reduce the numbers of children in their forces. But others, including the Democratic Karen Buddhist Army, United Wa State Army and Karenni Nationalities People's Liberation Front, continue to recruit and use children, sometimes by imposing recruitment quotas on local villages. Child soldiers in the armed forces of these groups may be as young as 11 or 12. While some armed groups restrict child soldiers to duties in their camps, others deploy child soldiers into combat situations.
In the coming weeks, the United Nations Security Councils working group on children and armed conflict will consider violations against children in Burma, including the use and recruitment of child soldiers. The UN secretary-general has already identified Burma's national armed forces in four consecutive reports to the Security Council for violating international laws prohibiting the use of child soldiers. The secretary-general has also listed several armed opposition groups as violators.
The Security Council has stated repeatedly that it will consider targeted sanctions, including embargoes of arms and other military assistance, against parties on the secretary-general's list that refuse to end their use of children as soldiers. So far, it has taken no action in the case of Burma.
Human Rights Watch recommended that the Security Council consider imposing measures including bans on the supply of arms and military assistance, travel restrictions on SPDC leaders, and restrictions on the flow of financial resources to the SPDC. The Security Council should fulfill its pledge to hold violators to account for recruiting and using child soldiers, said Becker. Given Burma's abysmal record on child soldiers, sanctions against the Burmese military government are clearly warranted.

domenica 14 ottobre 2007

45 giorni dal "lado del charco" europeo

Nicaragua Nicaraguita e la sua meravigliosa gente riempie i miei pensieri appena tornato al bel paese. Il delirium transitionis riempie, ovviamente, le mie giornate nutrendo dubbi sul fatto di lasciare questo paese speciale. Per riprendere fiato scendo a Santa Maria di Leuca, base per dieci giorni rilassanti e ingrassanti, utili a comprendere alcune dinamiche e a prendere decisioni mature. Ho conosciuto Lecce, Taranto e tanti paesini pieni di persone con voglia di divertirsi, tra notti della taranta e serate della proloco, reggae e pizzica con gli E’Zezi. Ho preso tutto il sole che non sono riuscito a prendere a Managua rinchiuso in ufficio, lo iodio deve aver fatto effetto. Così sono ripartito per il NordEst, insieme a Chiara, per farle conoscere Venezia, le sue parole, i suoi bacari, alcuni suoi angoli unici, la Biennale d`arte. Venezia e i pescatori, i ponti, il moto ondoso, i bengali e gli africani. Ma i veneziani? Sempre meno.
E poi ho passato del santo tempo con la mia famiglia, mia sorella.
E proprio in questo contesto è nata l’annunciazione. Si, Nicola e Chiara si sposano. Semplicemente, felicemente.
Il 31 Maggio dell’anno prossimo, vicino Torino, a Rossana, si..come le caramelle.
E così, è iniziata la babilonicissima follia dei preparativi. Anche perchè, nel frattempo, ACRA mi ha offerto l’opportunità per continuare la collaborazione con loro, questa volta in Bolivia, occupandomi di uno studio socio-economico sull’utilizzo dell’acqua in dieci comunità, fissandomi la partenza per il 15 Ottobre. Quindi, in un paio di settimane, abbiamo cercato di preparare quello che, normalmente, richiede molto più tempo ed energie. E’ stata una occasione per trascorrere una settimana a Torino, tra incartamenti, certificati, musica e serate bellissime. Conoscere la cittá dei Savoia, biciclettare, cenare in chiese sconsacrate ed in asili occupati, tra un film rumeno e l’ennesima denuncia sulla precarietà del lavoro di Ken Loach.
Parte delle cose era avvisare i miei testimoni, che saranno Gio e Lisy. Se dirlo a Gio è stato semplice, comunicarlo a Lisy di persona ha reso necessario prendere un aereo destinazione Bruxelles, aproffittando anche per invitare diversi amici che vivono li. Lisy è sempre bellissima, e ogni giorno di più ringrazio il destino che me l`ha fatta incontrare. Siamo stati nello squat che condivide con qualche amico a Gent, tra cene di verdure, crepés mangiate su ruote di legno, cioccolato scaduto e buonissimo, bagni improbabili, manifestazioni contro i neo-nazi delle fiandre a suon di samba e gran giri in biciclette altissime, tra drum’n’bass e autostop, tra vecchini con la faccia da santoni, e marocchini gentili. Al nord sono alti. Sono veramente alti. Lisy ha proprio una vibra magica, di un altro mondo, bello. I bimbi le cadono ai piedi incantati.A Bruxelles abbiamo rivisto Koen e Ines, compagni d’avventura in India che in comune con noi hanno il fatto di stare insieme da allora. Ho conosciuto Aline, con la quale siamo stati ad un concerto di musica popolare ad un’ora da Bruxelles, vicino le mura di una basilica che dev’essere stata imperiosa. Abbiamo pranzato con una spagnola che alla mia età prende tremila euro al mese per fare la traduttrice, e che ci ha portato in un posto supercaro e, per fortuna, ha ben pensato di offrire lei. S’è cenato con Eduardito, cubano amico di Chiara, uno spasso di persona, che vive in una casa con un congolese, tutta colorata, mangiando italiano grazie ad un amico siciliano che da Caltanissetta a Bruxelles ci mette venti ore in M3.
Bruxelles, tra tutte le sue incomprensioni, presenta delle peculiarità che la rendono speciale. E’ veramente multietnica, a differenza di Madrid, Parigi e Berlino, raccoglie immigrati provenienti da tutti i continenti. Con pochi legami coloniali, molti rifugiati politici, moltissimi europei, molti abiti e cerimonie tradizionali, mercati e balli che si sviluppano trasversalmente, ognuno con la sua identità, che non è però esclusiva ma cerca, quanto possibile, di essere inclusiva.
E così tra catering da chiamare e tendoni da scegliere, tra abbracci indelebili e parole sussurrate, è arrivato il giorno della partenza per la Bolivia, attraverso un altra volta in charco, questa volta destinazione Sud.

lunedì 3 settembre 2007

Salutando Nicaragua

La primavera e l’estate occidentale sono state per me in Nicaragua l’occasione di approfondire delle amicizie che spero accompagnino per sempre questa mia vita. Capire l’importanza ed il piacere di trascorrere e vivere il tempo con delle anime sante. A Lisy, che dopo un anno è tornata in Belgio, nella “Casa del pueblo-Mulukuku” è subentrata Maddy, una ragazza di Chicago, che lavora con dei ragazzi di una zona disagiata di Managua. Io e Roberto siamo stati proprio fortunati, Maddy ha dimostrato essere una bellissima persona, semplice e sorridente, una gringa critica quanto basta delle anomalie del suo paese. Con lei, Leo, Gladi, Sofana, Pelu abbiamo organizzato cene squisite condite da chiacchiere infinite e, non può mai mancare qui, da chisme su amici e nemici immaginari. E gli amici di ACRA Nicaragua, il capo, Elena, Gaia, Fra, Velkiss, Mario, Manuela, Greys, Evelia, Yelba, Neftali e Ezequiel, grazie a cui ho passato un anno lavorativo intenso ma divertente. La signora del mercadito sempre stanca, la signora della pulperia col broncio, la vicina di casa loca, i vecchietti vicini dall'altro lato che ronfano sempre, l'albero sempre fiorito che esce dal giardino di Carmela, la casa dei narcos della costa, la colinita e il cinema, il giardino di casa Mulukuku, l'amaca.
L’ultimo mese in Nica è stato rapidissimo, come sempre quando le cose che fai ti riempiono, condito da momenti semplici ed intensi, da bandiere dipinte, dalle passeggiate in ufficio, da tramonti ed albe, da musica ormai mia, dalla pulperia e dalla Laguna di Apoyo.
Tutte azioni legate a sensazioni, forti, intense, belle.
Il servizio civile si è esaurito, lascio questo paese meraviglioso dopo più d’un anno. Con alcuni dubbi in più su questo vagabondare esistenziale, ma con tante competenze e certezze in più sul mio lavoro. Saluto un paese e delle persone che mi si sono donate e mi hanno, veramente, fatto sentire parte di una famiglia, con tutti i lati positivi e negativi che questo comporta. Saluto alcune persone in particolare, che sento vicinissime, che spero poter accompagnare con le mie energie nel proseguio delle loro avventure in questa vita. Ringrazio tutti, tutte. E`stato un periodo meraviglioso ed indimenticabile, e questo grazie a voi!

¡Que viva Sandino!
¡Que viva Nicaragua!

¡Patria o muerte Venceremos!
¡Hasta siempre compañeros!

giovedì 2 agosto 2007

Tra Italia e Messico

Il ritorno in Italia dopo quasi otto mesi “del otro lado del charco”, espressione che i nica usano per indicare l’oceano atlantico, è stato un momento utile per osservare l’avanzare di una nuova generazione superficiale nemmeno per colpa loro, del radicarsi dell’apparenza in tanti contesti, ma anche dell’incontro con persone speciali che occupano il loro quotidiano per risvegliare le coscienze sopite. E’ stato anche naturale capire come le amicizie non coltivate assumano forme diverse, ma comunque ci siano e riempiano il cuore di felicità, anche se si riassumono in un’oretta passata a chiacchierare una volta all’anno.
Il Rototom è un festival musicale reggae che consiglio a tutti, indipendentemente dall’amore più o meno dichiarato per questa musica, strumento religioso per i credenti Rastafari. Si raccolgono genti da tutta Europa per condividere dieci giorni di danze, cibo, corsi, conferenze, rilassamento e ovviamente ballo. C’è proprio una bella atmosfera che m’ha ricaricato le batterie dopo un periodo di lavoro pesantuccio. Vedere i bambini ballare, colorati, le signore africane cucinare quintali di carne muovendo i loro santi fianchi, i giocolieri giocolare, i musicisti suonare, tanti ballare. Come può non riempire di gioia di vivere. Il festival è stata anche l’occasione per passare tempo con Chiara, dopo quasi tre mesi, e di rivedere persone splendide conosciute in Nicaragua, l’angelo Lisy, la gitana Emanuela e il British più simpatico che abbia conosciuto, Oliver. La fortuna di poter vivere in certi paesi ti fa scoprire come ci siano tante persone meravigliose che si mettono a disposizione della gente per cercare di cambiare questo sistema destinato a implodere.
Tornato in Nicaragua, dopo un giorno, sono partito via terra destinazione Chiapas, raggiunto dopo aver attraversato Honduras, Salvador, Guatemala e essere stato accolto da blindati dell’esercito regolare messicano che sempre più stanno accerchiando i municipi autonomi zapatisti. L’incontro è stato itinerante, abbiamo visitato tre dei cinque caracoles zapatista, ascoltando gli avanzamenti della rivoluzione e scambiando percezioni sulla lotta contadina grazie a rappresentanti di Via Campesina arrivati da molti paesi del mondo. Dopo una lotta ventennale gli zapatisti possono contare oggi su numerosi municipi autogestiti, su scuole primarie e secondarie autonome, su propri centri di salute, giunte “del buon governo”, e un esercito che li difende dagli attacchi messicani. C’è da dire che da sette anni ormai l’EZLN non utilizza la lotta violenta, puntando sull’affrontare in forma non violenta e autonoma il governo centrale messicano. Sono stato li con due cileni, Jesus e Carla; sono stati dieci giorni piuttosto utili a capire le differenze tra latinos e europei, tra europei ed europei; ho imparato le danze tipiche zapatiste, quasi tutte cumbie che loro possono ballare per giorni e giorni interrottamente. Ho ascoltato le parole di Marcos e Moises, delle donne zapatiste.
In Chiapas c`è un fuoco che arde forte, questi indigeni proseguono il loro cammino che in questi anni li ha portati sempre più ha coltivare le loro radici e, secondo queste, orgnizzare la loro vita ed il loro sistema di governo, controllato da loro stessi attraverso rappresentanti eletti che in ogni momento possono essere sostituiti se non realizzano gli interessi di tutti.

“El pueblo manda en Chiapas!”

domenica 29 luglio 2007

Caracol de La Realidad



Clausura II encuentro intergalactico de los zapatistas con los pueblos del mundo

Esta noche culminó el encuentro zapatista iniciado la semana pasada, con el anuncio, por la comandancia general, de un tercer Encuentro de los pueblos zapatistas con los pueblos del mundo, a celebrarse a finales de diciembre próximo. La sede, aún por confirmar, sería el caracol de La Garrucha. La reunión internacional tendrá la particularidad de reunir exlusivamente a mujeres de las comunidades con compañeras suyas de todos los continentes.

En acto presidido por el subcomandante Marcos, el teniente coronel Moisés y el comandante Tacho, la "compañera Everilda, candidata a miembro del Comité Clandestino Revolucionario Indígena" se encargó de anunciar el próximo encuentro, el cual llevará el nombre de la comandanta Ramona, pero también estará inspirado en la memoria del subcomandante insurgente Pedro, quien fue recordado con emocionadas palabras por el teniente coronel Moisés.

Dijo Everilda: "Vamos a pedir a los compañeros hombres que nos ayuden con la cuestión logística y puedan oírnos, pero calladitos". Recomendó a las futuras asistentes que "vayan diciendo a sus esposos que se queden a cuidar la casa, los hijos y los animalitos". Las mujeres se organizarán, añadió, "para organizar la lucha contra el capitalismo y el neoliberalismo".

Moisés aseguró a los y las presentes, de México y el mundo, que "no están solos, los zapatistas están con ustedes". Y recordó que el subcomandante Pedro siempre pronosticó que sucederían encuentros como este, donde los indígenas zapatistas se reunirían con personas y pueblos del mundo.

La aparición de los mandos rebeldes había sido preludiado por movimientos circulares y envolventes de centenares de milicianos dentro y fuera del caracol, repleto de gente que esperaba la celebración final después de un día de sofocante calor.

A lo largo de la jornada, continuación de la última etapa del segundo Encuentro de los pueblos zapatistas con los pueblos del mundo, el asunto preponderante ya había sido la situación de las mujeres en la autonomía zapatista, según se vive en esta selva fronteriza de Chiapas. Alejandra se presentó diciendo: "Soy 'jóvena' pero estoy asumiendo el cargo de representante regional. Nuestra participación como 'jóvenas' en la lucha es ser promotoras de salud y educación y formar grupos juveniles de trabajos colectivos".

Elsy, de la junta de buen gobierno Hacia la Esperanza, declaró que en la junta "trabajamos seis mujeres (y seis hombres) para ver y promover los trabajos que tenemos en la zona por lo agrario, salud, educación. Ahora, con nuestra lucha que llevamos, ya entendimos que es importante la participación de la mujer en los distintos trabajos, porque tenemos los mismos derechos que los hombres. Todavía hay temor de hablar, porque está en la cabeza que una mujer no puede hacer lo que un hombre, pero para nosotras el poder hablar, oír y mirar es lo más importante. No es importante saber leer o escribir bien, sino sí podemos desempeñar nuestro trabajo para el bien del pueblo".

Abundó: "Estamos construyendo nuestra autonomía. Como indígenas nos estamos gobernando solos. No necesitamos que nadie venga a decirnos qué vamos a hacer y cómo. Estamos viendo cómo está nuestro país, nos estamos dando cuenta que los indígenas de México estamos explotados por culpa de los neoliberales, los ricos, los dueños del dinero, que nos quieren seguir viendo pobres y humillados. Lo que deseamos las mujeres zapatistas es que entre todas y todos y con ustedes, hermanos y hermanas de todos los países del mundo, construyamos una nueva historia donde reinen la libertad, la justicia y la democracia. Invitamos a todas las mujeres del mundo a que se organicen y participen en la construcción de una nueva sociedad. Sin la participación de las mujeres no hay movimiento que triunfe", concluyó, entre aclamaciones del público, la también joven zapatista.

mercoledì 25 luglio 2007

Cuento de la piedrecita inconforme

Sup Marcos y el colectivo "para todos todo, para nosotros galletas"
Caracol di Morelia

CUENTO DE LA PIEDRECITA INCONFORME

(En el otro calendario: Abril en Julio)
Éste cuento será narrado con efectos especiales por el Colectivo “Para todos todo, para nosotros galletas”, que está formado por la Katy, el Giovanni, el Marcelo, el Carlitos, el Pablo y yo, o sea el Sup.
Las historias, cuentos y leyendas de los zapatistas, las zapatistas, apuntan a un mañana que tiene sus raíces plantadas en el ayer y asoman sus primeras luces en el hoy que nos desvela. Tal vez por eso tenemos como cambiados el tiempo y el calendario, y hablamos de hechos ocurridos hace siglos como si hubieran sucedido ayer o, más mejor, como si todavía fueran a acontecer, y de lugares lejanos como si estuvieran aquí nomás, a la vuelta del cerro. Por eso es que nuestros cuentos no empiezan con el tradicional “Había una vez…”, sino que empiezan su camino de palabras con el “Habrá una vez…”
Queremos dedicar este cuento a las niñas y niños zapatistas de las escuelas autónomas, y a todas las niñas y niños de México y del Mundo, porque en este mes de abril se celebra el día de las niñas y los niños.
(Interrumpe una niña, la Katy, e inicia una discusión con el Sup: “Acaso es Abril, es Julio”. “Cómo crees, Julio es un compañero que nos apoya chofereando con la Comisión Sexta”. “No, Julio es un mes y estamos en el mes de Julio”. “No, estamos en el mes de Abril y es el mes de los niños y niñas”. “No, es el mes de Julio”. “Es Abril”, “Es Julio”, “Abril”, “Julio”. “Es Abril, si no para qué soy subcomandante” ).
Bueno, después de esta pequeña discusión de calendario, estamos de acuerdo en que estamos en el mes abril y vamos a seguir con el cuento:
“Habrá una vez… una piedrecita, así muy chiquita. Así (el Sup hace una seña con la mano para indicar el tamaño). No crean que estoy haciendo una referencia gráfica al tamaño de mi medio de producción, circulación y consumo, sino que estoy hablando del tamaño de la piedrecita.
Bueno, pues esta piedrecita era una piedrita así rebelde, como muchas de las mujeres chicas, medianas y grandes que nos están escuchando o leyendo. Entonces digamos que eran una piedrecita que estaba inconforme, o sea que cada rato se estaba inconformando.
Por ejemplo, en ese día que habrá, estaba la piedrecita así recostada en el suelo, viendo nomás las nubes y los pájaros que están en el camino del sol, y las estrellas y sombras que visten a la luna.
Ahí está la piedrecita, acaso está pensando nada. Pero, de pronto… ¡zas!, que le llega la inconformació n, que sea que empieza a rezongar y a murmurar que yo por qué llegó que soy piedrecita, viera que soy nube, manque sea chiquita, ónde quiera voy a pasear y me iba a ir hasta allá hasta donde vive la señora Corea del Sur, o la señora India, o la señora Tailandia, o la Indonesia ésa, que a saber ónde quedan sus casas de ésas señoras.
Pero viera que salí nubecita, pos bien que lo iba ver, pero no, salió que soy piedrecita y aquí nomás estoy y no estoy de acuerdo y ya lo pensé bien y estoy muy decidida que me voy a inconformar.
Y entonces la piedrecita pensó que tiene que se va a hacer bulla para que se sepa que está inconformada, porque si nomás se inconforma así, pues nadie se va a dar cuenta y toda la gente va a pasar y ni la va a ver o de repente va a pasar una señora con una su hija y nomás la va a mirar a la piedrecita y va a decir: “Ah mira hija, una piedrecita que está muy conforme de que llegó que es piedrecita, deberías aprender tú niña que andas con eso de que quieres irte con un zapatista pobre, que ni cargo ni sueldo tiene, en lugar de enamorarte con un panista o priísta o perredista, es lo mismo, que ésos sí ganan mucho dinero”
Entonces la piedrecita pensó que no sirve si no se sabe que está inconforme, entonces pensó de hacer un letrero que diga “Estoy inconformada” . Y pensó que también que le va poner muchos colores y tamaños a las letras de su pancarta. Y entonces dijo: “necesito muchos plumines de colores, y una regla para que no sale chueca la letra…, y una cartulina y unas tijeras, y un lápiz… ¡chin!, y también necesito aprender a leer y escribir porque sí sé cómo es el sentimiento de inconformarse, pero no sé cómo mero va la palabra “inconformidad” .
Y ahí está pensando la piedrecita cómo le va a hacer para mostrar su inconformidad. Y entonces tardó pensando y dijo “Mkela chin…, cuesta mucho trabajo inconformarse. Bueno, primero necesito unas manos y unos pies”.
Y entonces la piedrecita se concentró y empezó a pensar muy fuerte: “mano, mano, mano”, pero nada que le salían manos. Entonces le echó más ganas y empezó a pujar… mmj…mmj… y ¡zas!, que en lugar de una mano le salió un pedito… ¡prrrt!. Bien rrroja que se puso la piedrecita porque se le salió, pero lo miró que nadie se dio cuenta así que tampoco le dio mucha pena, y siguió pujando… mmj…mmj… y cuando ya se estaba poniendo azul de tan morada, ¡zas!, le salió una manita por el lado izquierdo. Muy agotada quedó la piedrecita, pero le echó ganas y se concentró para que saliera la mano derecha. Y pujó y pujó, y después de que le salieron varios peditos, ¡zas!, la salió una patita también por el lado izquierdo. “¡Chin!”, pensó la piedrecita, “ora sí que me fue por abajo y a la izquierda”. Y siguió pujando para que salieran la mano y la pata derechas, pero ora que sí que ya parecía que tenía parásitos en la barriga porque puros peditos le salían. Muy desmayada estaba ya la
piedrecita, y pensó que así está bueno, que con una mano y una pata izquierdas podía hacer muchas cosas para quedar cabal y poder inconformarse. Con trabajos se sentó la piedrecita y puso su manita izquierda así como que está pensando muy seria. Y llegó en su pensamiento que se tiene que aprender las letras para escribir “Inconformidad” , y los números… y la geografía, porque qué tal que, en lugar de llegar a Corea del Sur llegaba a Washington y, cuando estuviera echando su discurso: “Queridas compañeras piedrecitas de Corea del Sur, por mi voz habla la voz de las piedrecitas zapatistas…” ¡zas!, ahí nomás le iban a caer la Border Patrol, el FBI, la CIA y los marines y la iban a apresar y se iban a dar cuenta que era una piedrecita sin papeles, sin tierra… y sin mano ni pata derechas.
“Voy a buscar al señor Búho”, pensó la piedrecita, porque de por sí había oído que el búho sabe muchas cosas y tiene los ojos muy grandes y usa lentes porque mucho lee. Entonces ahí va la piedrecita, cojeando y agarrándose de donde puede, hasta que llega al árbol donde vive el búho. Ya ahí lo empieza a llamar al señor Búho: “pst, pst, señor Búho, pst, pst”. El señor Búho volteó a ver para todos lados y no vio mas que una piedrecita con una mano y una pata izquierdas, así que no hizo caso. La piedrecita ora sí que se embraveció porque el señor Búho la estaba ignorando, y gritó: “Señor Búho, te quiero hablar, si me sigues ignorando te voy a aventar una piedra en la cabeza”. Ahí sí ya la miró el señor Búho y bajó y le preguntó qué quiere, que está muy ocupado. La piedrecita le dijo que quiere le enseñe a leer, y escribir, y las matemáticas ésas que dice el Comandante Zebedeo, y la geografía para saber dónde queda la casa de las señoras India, Tailandia, Indonesia y Corea del
Sur.
El señor Búho se río y dijo: “Si yo acaso sé”. La piedrecita se extrañó y le dijo “Pero si todos dicen que sabes mucho, que por eso tienes los ojos grandes y usas lentes”. “Es su mentira, dijo el señor Búho, yo tengo los ojos grandes y uso lentes porque me la paso viendo a las chamacas cuando se van a bañar al río… ¡arrroz con leche!. Pero sí tengo muchos libros, porque todos piensan que sé mucho y me mandan un montón. Si quieres te doy un buen tanto.” “Bueno, dijo la piedrecita, y ahí nomás el señor Búho le llenó de libros un mochilón así de grande, como los que traen las compañeras y compañeros que vienen de otras tierras, que parece que se trajeron todo su país en la mochila.
Bueno, pues ahí fue arrastrando su mochilón la piedrecita, hasta la sombra de un árbol y se sentó y sacó varios libros y se puso a mirar las letras y los números. Y pos nomás no entendía nada. Entonces se fue a una escuela autónoma zapatista para ver si ahí podía aprender con una educación que le dicen “íntegra”, o sea que de todo y bien, y no nomás de una cosa y mal. Y llegó y nadie le decía nada, ni la mal miraban, aunque siempre un poco sí, porque unos chamacos malosos la querían agarrar para aventarla con la tiradora. Pero las niñas zapatistas la defendieron a la piedrecita y le hicieron una autocrítica a los chamacos malosos, y acompañaron la autocrítica con un garrote y ya entonces se calmaron. Y la piedrecita pensó que está bueno eso de la autonomía y que todas esas niñas también estaban inconformadas.
Y así empezó a aprender la piedrecita, pero como era piedrecita pues aprendió muy otro. Por ejemplo, la geografía la aprendió así como muy otra, porque según ella la casa de los campesinos de la India, de Corea del Sur, de Tailandia y de Indonesia, quedaba más cerca de Chiapas que la Casa Blanca o la casa del mal gobierno de México.
Y así estaba contenta la piedrecita, aprendiendo y jugando en la escuela autónoma. Pero llegó un día que la maestra le preguntó a los alumnos y alumnas que qué quieren ser cuando sean grandes, o sea cuando crezcan. Y todas y todos tenían que contestar. Y una niña dijo “yo quiero ser ingeniera”, y otra dijo “yo quiero ser doctora”, y otra dijo “yo quiero ser chofera”, y otra dijo “yo quiero ser piscóloga”, y otra una “yo quiero ser ahogada”, y una más dijo “yo quiero ser subcomandanta” y ahí nomás salió un rayo láser machista del Sup Marcos, bzzz, y la desintegró a la niña… No, no es cierto, no le pasó nada, pero es porque el Sup no se enteró, que si no…
Bueno, pues entonces ahí van pasando todos los niños y niñas y le llegó su turno a la piedrecita. La piedrecita había estado pensando qué quería ser, y cuando le preguntó la maestra respondió con mucho gusto, gran alegría y desbordado entusiasmo: “¡Yo quiero ser nube!”. Los muchachos malosos echaron su carcajada y la empezaron a burlar: “¡Éjele, quiere ser nube y está muy pesada!”, dijo uno. “¡Sí, está muy gorda!”, dijo otro. Y mucho la burlaron. Pero las niñas se embravecieron y sacaron el garrote de la autocrítica y ya se calmaron los muchachos malosos. Pero la piedrecita se sintió muy triste. “Sí, es cierto, dijo, estoy muy gorda y pesada, no voy a poder se nube”. Pero las niñas y los niños zapatistas la animaron y le dijeron que no tienes pena piedrecita, te vamos a ayudar. Y una niña dijo: “yo tengo una hermana que es miliciana y ella te puede ayudar con los ejercicios para que bajas de peso”. Bueno, dijo la piedrecita que ya estaba un poco más animada. Y fueron las
niñas y niños zapatistas y la llamaron a la miliciana para que le enseña ejercicios a la piedrecita. Y la miliciana dijo que sí le enseña pero que primero tiene que avisar con el mando.
Ya luego que sí le dieron orden, la miliciana dijo que, como la piedrecita quería ser nube, entonces le iba a dar entrenamiento de tropa aerotransportada. Y entonces ya empezó el programa de adiestramiento y ahí está la pobre piedrecita corriendo de un lado a otro, haciendo sentadillas y lagartijas, comiendo puro pozol para tener mucha fuerza. Tardó días haciendo ejercicio la piedrecita y nomás no bajaba de peso ni de medidas. La vieron muy desmayada las niñas y niños zapatistas y le dijeron: “bueno compañera piedrecita, pos nomás no bajas, estás como piedra. Tenemos que pensar otra cosa para ayudarte”. Se fueron las niñas y niños, y entonces la piedrecita aprovechó para atascarse de dulces, galletas y chocolates. Luego regresaron las niñas y niños zapatistas y se sentaron también a comer dulces, galletas y chocolates y ahí tardaron. Ya que estaban todos y todas con la barriga llena, dijeron: “Oíte piedrecita, ya pensamos un plan para que vuelas como las nubes”. La
piedrecita está así tirada nomás, tratando de hacer la digestión de tanto mugrero que se comió y nomás suspiró y dijo “ta bueno”. Entonces los niños y niñas la sacaron un vejiga, que sea un globo, y lo inflaron y lo amarraron con un hilito a su barriga de la piedrecita y ya flotaba, no mucho pero siempre un poco sí bastante. Todos aplaudieron, y la piedrecita no aplaudió porque sólo tenía la mano izquierda, pero claro se vio que sí estaba contenta. “Vamos al cerro, dijeron los niños y niñas, y de ahí la aventamos a la piedrecita para que se vuela”. “Pérense, dijo una niña, acaso sabemos pa dónde la vamos a aventar. Y dirigiéndose a la piedrecita le preguntó: “¿Vos para dónde quieres volar?” Y la piedrecita dijo “Quiero ir a llover a Asia, África, Oceanía, Europa y toda América, pero primero voy a Asia”. “Mmh, pos ora si se chingó la señora Roma ésa del Sup, porque no sabemos por dónde va el camino”, dijo un niño. “Vamos a preguntarle al Sup”, dijo una niña. “Yo no voy”,
dijo un niño, “porque el Sup no quiere a los niños y les corta la cabeza con un machete, sin filo, para que tarde, dice, y oxidado otra vez para que se infecte, dice”. Y entonces empezaron a alegar que si es cierto, que no es cierto. Y tardaron hasta que una niña dijo: “Ya sé, llevémosle galletas al Sup y así no nos corta la cabeza”. “Bueno”, dijeron las niñas y niños y se fue una banda a buscarlo al Sup en la Comandancia General del Ejército Zapatista de Liberación Nacional. Ahí lo encontraron al Sup que estaba muy bravo porque, dijo, un escarabajo le había robado su tabaco de la pipa. Con miedo se acercaron los niños y niñas, y una niña que tiene 5 años y se llama La Toñita y no tiene miedo dijo: “Oí Sup”. El Sup contestó gruñendo como muy bravo: grrrr, grrrr.
La Toñita dijo: “Te trajimos unas galletas” y entonces ya el Sup como que se tranquilizó un poco, no mucho, pero siempre sí algo. Y entonces ya se sentaron junto con el Sup y se atascaron de galletas de animalitos. Y ya luego le preguntaron al Sup: “Oí Sup, ¿por dónde se va a la casa de la señora Asia?” El Sup se sacudió las moronas de la camisa, sacó su pipa y no la prendió porque dijo que un escarabajo jijo-de-su-tal- por-cual, así dijo porque es muy malhablado, le había llevado el tabaco, y entonces ya dijo: “Bueno, pues se van por aquí, recto, y ya luego llegan a un cruce, donde está el pájaro tapacamino, ahí hay un camino que va a la derecha y otro que va a la izquierda. Entonces por la derecha no, sino que por la izquierda y ahí se siguen y cuando vean un letrero que dice “Bienvenidos a Asia” entonces ahí es”. “Ta bueno, dijeron los niños y niñas y, cuando ya se iban, el Sup les dijo que llevan un buen de pozol porque no luego se llega, sino que tarda. Contentos
llegaron los niños y niñas a donde estaba esperando la piedrecita colgada de la vejiga y ya estaba morada porque le apretaron mucho el cordón. Ya se lo aflojaron un poco y le dijeron que ya saben por dónde se va a casa de la señora Asia. Y entonces la piedrecita dijo: “Ta bueno, pero hay una problema y es que cómo le voy a hacer para llover si soy piedrecita”.
Se reunieron otra vez los niños y niñas para pensar cómo van a hacer y llegaron a un acuerdo y entonces fueron por una cubeta de agua y se la amarraron a la piedrecita para que echa agua cuando quiera lloverse. Y entonces ya todo está listo y se fueron para el cerro. Y entonces ya dicen muchos discursos que parece reunión de la Otra Campaña. Y ya por fin terminaron los discursos. Y pensaron y le pintaron un letrero a la vejiga que decía “La Otra Nube”, para que el resto del mundo supiera qué es. Y la piedrecita tiene mucha nerviosidad y se despide de todos los niños y niñas, y un poco como que quieren chillar, pero la piedrecita les dice que no chillan, porque va a regresar luego, nomás que se le acabe el agua de la cubeta, viene otra vuelta para llevar más. Bueno, dijeron las niñas y niños y ya la pusieron en la orilla del cerro, pero la piedrecita no se mueve porque pesa, no mucho pero siempre un poco sí. Entonces los niños y niñas empiezan a soplar con mucha fuerza, y
ya se empieza a mover un poco la vejiga que carga a la piedrecita y llegó un viento y se empezó a volar. Y se fue… lejos. Y pasó por la frontera de Estados Unidos y la fuerza aérea norteamericana se movilizó porque, dijeron, había un objeto volador no identificado y la rodearon muchos aviones de guerra a la piedrecita voladora y el mando de ellos habló por radiocomunicació n y les preguntó a los pilotos que qué era lo que volaba y los pilotos responden que es una piedra amarrada a una vejiga, con una cubeta de agua y un letrero que dice “La Otra Nube”. El mando se embravece y los regaña que de cuál fumaron, que si andan bolos o qué, y que se regresen rápido porque los va a arrestar a todos. Se van los aviones de guerra y la piedrecita les hace caracolitos con la mano izquierda.
Y donde quiera que va pasando la nubecita, que diga, la piedrecita, la gente mira al cielo y saca sus paraguas y nylon porque piensa que va a llover. Y cuando llega a Asia, los campesinos y campesinas de esos países se ponen muy contentos porque llueve buena agua para sus milpas y echan baile popular.
Y un día llega una carta a la escuela autónoma zapatista y se juntan todos los niños y niñas muy extrañados porque la carta tiene muchos sellos y estampillas con signos muy extraños. Las niñas y niños abren la carta y resulta que es de la piedrecita y la carta dice así:
“Queridas compañeras y compañeros niños y niñas zapatistas:
Espero que se encuentren bien de salud y echándole ganas al estudio. Después de mi corto saludo prosigo a lo siguiente: Miren compañeritas y compañeritos, ya mero se me acaba el agua de la cubeta y ya pronto voy a regresar. Pero claro les digo que ya no quiero ser nube, porque ya me mareé. Entonces le digo que ya pensé bien y ahora voy a querer ser árbol. Ahí lo vean. Es todo mi palabra.
Atentamente.
La Piedrecita Zapatista Aerotransportada” .
Y entonces los niños y niñas zapatistas ahora están pensando cómo le van a hacer para que la piedrecita se haga un árbol, que yo creo que ora sí se chingó Roma porque a saber cómo le van a hacer.
Tan-tan.
Muchas gracias.

Por el Colectivo “Para todos todo, para nosotros galletas, manque sean de animalitos”
La Katy (11 años).
El Giovanni (12 años).
El Marcelo (6 años)
El Carlitos (9 años).
El Pablo (7 años).
El Sup (515 años).

giovedì 10 maggio 2007

Managua e Managua

Managua e Managua

Palme di povertà

Panni sporchi terra

Terra madre?

Scarpe sfondate

Anime lacerate

L’opulenza c’è,

ridondante,

stordente

Fastidiosa

Managua e Managua

I barri,

figli di urbanizzazioni distribuite

queste si

I figli dei barri

Lo scuro e lo sporco associati a disagio

Il bianco e i pastelli all’apparenza

Doppia faccia

Visioni diventano invisibili

Persone diventano colla

Doppia faccia

Managua e Managua

domenica 15 aprile 2007

Tra i colori, in mille bolivie

Bolivia Orientale, altri mondi dentro lo stesso

Questo paese appare disorganico. Non è infatti applicabile la complementarietà organica indù per descrivere le differenze tra la parte occidentale ed orientale di Bolivia. Se l’occidente visitato è caratterizzato dalle millenarie tradizioni indigene e dalla semplicità, l’Oriente è figlio del progresso, delle influenze culturali argentine e brasiliane, della ricchezza economica, dal mercato della droga.

Cochabamba e Santa Cruz, due città simbolo della Bolivia, raggiunte dopo un lungo viaggio tra giungla e terra rossa. La prima molto più interessante della seconda: c’è ancora, a Cochabamba, l’intrecciarsi delle tante culture che compongono questo paese, mercati stracolmi di boliviani di tutti i tipi, che vendono e comprano, che chiacchierano e litigano; ci sono ristoranti bohemienne e concerti funkie jazz, ci sono pizze squisite. La cammino di notte cercando un luogo dove dormire, il mio andare è accompagnato dal silenzio, agognato nelle grandi città. Santa Cruz rappresenta, per quanto mi riguarda, la discesa all’inferno. Arriviamo a Santa Cruz e ci fermiamo ad una stazione di servizio per fare benzina. La stazione è insolitamente piena di gente, uomini in particolare. Il dubbio è presto svelato. La compagnia di turno, per attirare i clienti, ha scelto come benzinaie delle proronpenti ragazze che lavorano in bikini. Neanche in un film di serie b italiano s’arriva a tanta pochezza. Ovviamente la gente divertitissima, un pò meno le ragazze che mi pare percepire lo facciano più perché abbiano bisogno d’un lavoro, che per esibizionismo. Le città modello europeo hanno i loro pro e contro; se tra i contro c’è sicuramente la perdità delle specificità culturali di ciò che era prima, tra i pro c’è l’opportunità d’assistere, per esempio, ad un concerto arabo mangiando roquefort o d’assistere ad una infarinata jam rock in un bar decadente. Certo è che tutto questo lo si può trovare pure a La Paz, ma l’aria che si respira li è tutt’altra.

L’Oriente, però, è pure la Chiquitania, regione all’estremo est, al confine con il Brasile. Questa area ha vissuto, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, l’evangelizzazione gesuita che ha costruito piccoli villaggi con chiese finemente lavorate in legno, grandi piazze in fronte alle stesse ed il villaggio intorno. Ne ho visitati numerosi, tutti uguali. Un pò come in tutto il continente; chiesa, piazza e villaggio che ci cresce intorno. Qui, però, tutto è verdissimo, siamo nella foresta amazzonica. Passiamo bellissime e rilassanti giornate, mangiando squisitezze, bagnandoci nel lago tra uomini con una gamba, ruote di camion che emergono dal fondo del lago stesso, reggaeton a tutto volume sparato dalle macchine parcheggiate ad un metro dalla riva, tra terme bollenti in una notte di stelle, di ragni e di fango. E’ la settimana santa, quella che nella tradizione cristiana celebra la morte e resurrezzione di Cristo; essendo villaggi basati sulla religione, l’intera popolazione è in fermento. Quotidiane via crucis si snodano tra le vie sterrate, la gente partecipa, più o meno cosciente. La via crucis più intensa è quella della domenica dove, giovani e meno, attuano la morte di Cristo, con un ragazzo che passa una buona ora verticale in croce mentre il sacerdote legge i vangeli. Le persone sentono quello che vedono, rendendoti partecipe di qualcosa di grande, chiamata fede.

Tempo di tornare, attraverso strade rosse si passa per Concepcion, dove riassaporo i fagioli, seppur bianchi. Un segno del riavvicinamento alla terra di Sandino dove i fagioli rossi sono parte quotidiana dell’alimentazione.

Direzione La Paz, destinazione Managua, Nicaragua. Settimane meravigliose, intense, colorate, divertenti.

martedì 3 aprile 2007

Salar di Uyuni e Cairoma

Il ritorno dal caldo e colorato Lago Titicaca mi proietta nella dimensione a volte alienante d’una stazione di bus, in attesa del collegamento per il Salar d’Uyuni. Come spesso accade, però, la stazione è sempre luogo d’incontri e conoscenze, di scontri e di carezze, di personaggi divertenti ed inquietanti. Oltre al ladro di turno, inseguito e catturato dalla polizia con al seguito la cholita saltellante derubata con la sua gonna a balze, innumerevoli uomini e donne con il compito d’attrarre il viaggiatore verso la loro compagnia di trasporti. Per fare ciò gridano la destinazione, ovviamente chi lo fa più forte o con una intonazione più caratteristica guadagna l’attenzione agognata. La stazione è quindi un vociare continuo, un inseguirsi e sovrapponersi di voci rimbalzanti tra le pareti che producono echi dub.

Il viaggio di notte è rapido ed indolore, scaldati da coperte di lana di lama che non farebbero patire il freddo nemmeno nudi all’aria aperta. Colazione con Api, riginerante. Iniziamo il tour con una coppia di mezza età di francesi e una composta da un francese e una peruviana. A tratti simpatici, sorprendentemente critici verso le politiche migratorie del proprio paese, preoccupati, a ragione credo, per quello che Sarzoky, combinerà una volta eletto.
Il Salar di Uyuni è il deserto di sale più grande del mondo, è una distesa bianca sterminata, non si mira nulla all’orizzonte, stordente. Il sole si riflette sul sale in modo quasi insopportabile, occhiali necessari compagni. Una delle mete del tour è l’isola del Pescado, oasi in questo deserto, completamente ricoperta da cactus, il più antico pare abbia diecimila anni. La sera arriviamo in un villaggio dove dormiamo qualche ora, non prima d’aver incontrato una indiana inglese che ha riaperto all’istante il mio innamoramento per quella gente e terra, dopo aver giocolato con dei bimbi, aver ballato qualche ora salsa colombiana con il nulla intorno utilizzando la radio di una macchina, e aver bevuto un rigenerante e necessario mate di coca. Ho la febbre, ma fa parte della distorsione dovuta a calore ed altitudine. Proseguiamo tra numerose lagune che trovano spazio tra sale, roccie e montagne: si arriva fino al confine con il Cile, segnato da un vulcano che se non fossi abituato ai nicaraguensi direi maestoso. Passiamo presto al mattino per delle terme a cinquemila metri dove Chiara si bagna arrotolata da acque calde e l’arancione di un sole che si vede enorme, enorme. Il giorno del ritorno al campo base, si parte quando la notte e la luna ancora governano l’intorno per arrivare direttamente sulla Luna. Si, sulla Luna. Questa è la sensazione che provo quando, ancora assonnato, improvvisamente apro gli occhi e vedo solo terreno grigio e gran fumate. E penso..ah la tecnologia che passi avanti. Va beh. Il tutto è comunque reale, solo che non si tratta d’un altro pianeta ma di geiser che sprigionano vapore caldo e contribuiscono al colore dell’intorno.

Terminata la traversata del deserto si torna a La Paz, ma solo di passaggio, in direzione Cairoma dove ACRA ha un progetto di acqua potabile. Accompagno Chiara che sta conducendo lo studio socio antropologico, quale scusa migliore per godersi altri luoghi magnifici tra persone semplici e speciali. Cairoma è a otto ore da La Paz, che possono essere sette ma possono essere pure dieci. Il tragitto per arrivarci è una continua arrampicata tra tornanti stretti e dissestati, che solo conoscendo a menadito si possono affrontare con tranquillità, come fa Don José, uomo dolce e posato, autista della ong. Passo giornate in lunghi spostamenti tra le diverse comunità beneficiarie del progetto, tra strade che sono rivoli di fango e prati verdi, tra patate straordinariamente saporite e birra all’uovo, tra uomini timidi e donne che quasi non si vedono, tra bimbi che cantano orgogliosi l’inno in una scuola alta come me e pallate di neve con Chiara. Correre a quell’altezza toglie il respiro, o forse è la gioia. Dalle interviste emergono diverse tradizioni aymara legate all’acqua, interessante e utilissima questa ricerca, che permette a queste persone di non dimenticare tradizioni millenarie che hanno caratterizzato questa cultura prima dell’invasione culturale cattolica ed evangelica.

lunedì 26 marzo 2007

Conoscere La Paz e il Lago Titicaca


La scelta di viaggiare in Bolivia è stata una piacevole contingenza, come sempre attimi e situazioni, volenti o nolenti, ci fanno intraprendere delle strade, in questo caso un viaggio, per le vie di un paese che ne contiene mille.

Partito da Managua, attraverso Salvador e Lima, giungo finalmente a notte inoltrata a La Paz. Prima di arrivare però, rimango impietrito di fronte alle dimensioni di Lima. Vista dall’alto non ha inizio e non ha fine, è marrone come il fango, base delle case nelle suburbie. Lima ha nove milioni d’abitanti, la differenza, in questi paesi, è che tutto è a un piano per il pericolo terremoti, risultando quindi le città molto piu estese delle capitali nordamericane, europee o asiatiche.

L’arrivo a La Paz è forte, segnato dal desiderio e dai timori legati al re-incontro. Si atterra a El Alto, città formatasi nel tempo intorno alla conca dove si sviluppa La Paz; case abbarbicate sulle montagne che hanno via via dato vita ad un vero e proprio mondo, con un milione di abitanti: una metropoli indigena. La discesa da El Alto a La Paz è spettacolare, la notte regala una capitale piena di luce, prima differenza con una Managua sempre martoriata dagli “apagones”, tagli di corrente dovuti a deficit energetici. Tra tornanti che lentamente mi portano nelle viscere della città noto anche le case, tutte di mattoni, mentre in Nicaragua è normale vedere case di lamiera o legno, tutte piuttosto oneste queste abitazioni boliviane. Mi sistemo da Chiara in un decisamente lussuoso appartamento nella zona internazionale, cucina moderna, tavoli di vetro, divani, bagni ben rifiniti, moquette e un futbolin! Un calcio balilla che sarà utilizzato da mani di nuovo adolescenti, per piacevoli tornei e sfide divertenti. Inizio a conoscere alcuni amici di Chiara; Fernando, un antropologo che a canoni occidentali risulterebbe pazzo, con gli occhi fuori dalle orbite e lo sguardo penetrante, con una guancia sempre stracolma di foglie di coca, che qui si usano come chewing-gum, ma che sono molto piu sane ed energetiche del sopraddetto. E poi Pedro, altro antropologo, molto preparato, molto dentro il movimento sociale, con cui ho il piacere di dilungarmi in chiacchiere e conoscenza reciproca, e poi una massa di Italiani, tra cui Fede e Alessandro, più che simpatici compagni di casa. Ho conosciuto la casetta di una scalatrice che fa riempire le pareti con il calco delle mani di tutte le persone che la visitano, e che racconta delle sue perplessità legate all’inesperienza del compagno (!?!). La stessa ragazza c’ha poi portato a casa d’un amico avvocato a vedere un bel film boliviano “El dia que paso el silencio”. Questo avvocato, divertente e simpatico, vive in una casa di iper lusso con il televisore più grande che abbia mai visto, e un’infinità di pezzi arredamento kitch, surreale. Il tutto seguito da una cena in ristorante arabo con musica e manifesti indiani, e chiusa in un locale tradizionale dove, prima di bere, si esegue un rito alla Pacha Mama –Madre Terra-, per ringraziarla dell’alcool.

Ho avuto il piacere di visitare il mercato di El Alto, infinito pure questo: tra articoli usati, scarpette e gonne da cholita, ferraglia inutilizzabile, palloni e scarpe da calcio, lo sport nazionale, gustosi succhi e l’orizzonte. Si perché l’altezza media di un boliviano mi fa sentire per la prima, e credo ultima volta in questa vita mia, un Watusso. Sono realmente più alto del novanta per cento dei boliviani, ed è una sensazione strana, quella di vedere i volti da sopra. Di vedere la forma dei nasi dall’alto più che il profilo delle labbra, la forfora nei capelli più che il disegno in una maglietta. Ciò che invece continuo a guardare dal basso sono i cactus. Al Sud della capitale ci sono queste infinite distese di San Pedro, così sono stato a passeggiare e a raccoglierne un pò, per poi, una volta cucinato, preparare un fresco per il torrido viaggio al lago Titicaca, davvero allucinante! Prima di lasciare La Paz però ho passato una serata bellissima, in un bar clandestino gestito da un gay superstiloso, poi al Garage ballando salsa e reggaeton, chiacchierando con alcun’altri antropologi al Carcajadas, locale femminista, e conoscendone uno che si chiama Ruben Dario, come il poeta nazionale nicaraguense, per concludere la serata con un pensiero a Sandino e alla sua terra, tra un sorso di Singani, alcolico nazionale, ed una poesia.

Il Titicaca è il lago più grande dell’America Latina, diviso tra Bolivia e Perù. Per raggiungerlo si passa per Copacabana (si ce n’è una qui oltre che in Brasile), città ogni anno che passa sempre più pensata in funzione del turista. Chiara si mangia una trota, io il classico piatto del vegetariano in Bolivia: patate, riso, uovo e insalata e via, nel battello che ci porta all’isola del Sole, così chiamata perché secondo la tradizione Aymara in quell’isola è nato il sole, al lato sud della stessa. Questo ci permette di attraversarla tutta, per ritornare al Nord. Nel cammino incontriamo una cholita che chiacchiera con noi mentre velocissima sale e scende le ripide roccie, e ci fa accompagnare dal fratellino in barca, risparmiandoci un bel pezzo del tragitto. Alloggiamo in una stanzetta, parte di una casetta al limite del fiabesco. Il lago è talmente vasto e l’isola talmente grande che sembra d’essere in un mondo in sé, circondati da un infinito oceano. Verso sera tornano le barche dei pescatori e questo fortifica questa sensazione, i ragazzi giocano a palla, i vecchi li guardano commentando, come in un oratorio di provincia di una qualsiasi città del mondo. La spiaggia è bellissima, i colori fantastici, i bimbi s arrampicano tra le colonne.
E’ il giorno del San Pedro, è il giorno di sfilate di colori, di animali nitidi, di roccie rosa, di argentini che cercano leoni, di stanchezza, di risate incontrollabili, di espulsione di malesseri, di luoghi sacri che sprigionano energie pazzesche, di svenimenti, di giaguari, di pensieri che non superano l’isola, di labirinti, di stelle filanti nel bagno, di mele salvifiche, di dimenticanze di luoghi corporali, di unioni forti, di acqua agognata, di donne orribili con asini bellissimi, di panorami intensi, di stanze agognate e inaspettatamente raggiunte, sono ore di veramente spledide distorsioni.
Il giorno dopo si riparte, mate tranquillo, viaggio in cui Chiara quasi perde il barco, ritorno a La Paz.

sabato 24 febbraio 2007

Naturale peregrinare


Questo paese ha un valore aggiunto, è splendido. Le perplessità legate alla partecipazione alla vita civile vengono affiancate dall’opportunità di passare due giornate a Ometepe, isola nel mezzo del lago Nicaragua, centro del centro di Centroamerica.
L’occasione è il primo festival culturale che diverse comunità dell’isola hanno organizzato. Il tema dell’incontro è la preservazione del patrimonio archeologico, costituito da pietre incise nell’antichità che ancor oggi regalano emozioni nell’osservarle. Queste, spesso, vengono vendute dalla popolazione indigente per pochi cordobas a turisti senza scrupoli.
Prima d’entrare in preziosi dettagli dell’allegro succedersi d’eventi, non posso tralasciare il piacevole viaggio per raggiungere l’isola. Come spesso Lisy ed il suo sorriso magico sono compagni di scorribande. Raggiungiamo San Jorghe al rai, cioè in autostop. Ovviamente farlo con una biondina dagli occhi azzurri, in questo paese, rende tutto più facile, esternalità positive. L’ultimo dei tre passaggi ce lo ha dato un signore con un auto enorme, dalla tina tanto accogliente da permetterci pure un pisolino scaldato da raggi impenitenti.
L’isola si raggiunge con un ferry, le onde fanno sobbalzare la barca lenta, come in un cartone animato di qualche decennio fa; la vista del vulcano Madera ci informa che siamo prossimi.
Al festival ho registrato una serie di immagini che mi hanno riempito la memoria, conosciuto persone che spero m’accompagnino nel mio vivere qui in Nicaragua. Una delle prime attività del festival è una rappresentazione di marionette per i bimbi dell’isola organizzata da una ragazza nica-boliviana di 17anni, appartenente ad una famiglia che da generazioni si occupa di questo artigiano mestiere. Soa, questo è il suo nome, ha degli occhi grandi e nocciolati, già da anni fa spettacoli e si sta specializzando nel teatro dell’assurdo: forma teatrale che vuole affrontare un argomento liberando i protagonisti ed il pubblico da ogni pre-giudizio o conoscenza- sul tema trattato.Un sacco di chiacchiere bevendo refrescos di tamarindo, insieme al suo ragazzo, boliviano di Cochabamba, giovane alto e ballerino.
Poi sono seguite danze popolari messe in scena da un gruppo di isolani; danze che riproducevano il quotidiano ed il mitologico, i problemi legati al raccolto come le storie di una vecchia strega dell’isola. Il tutto illuminato dal fuoco e accompagnato da maschere e musica popolare. Molto interessante.
A seguire un concerto intenso, di musichi nicaraguensi, giovani e non, tutti parolai di questa terra. Concerto che termina presto al mattino, caratterizzato da balli, da hippy con fascetta, da osservazione partecipata, da un camion carico di banane che si infila in una delle tante voragini che caratterizzano le strade di qui e rischia di rovesciarsi giusto alle spalle del palco. Situazione pericolosa accolta con serenità, tanto da richiedere l’attiva partecipazione dei presenti per risolverla.
Si è rimorchiato questo camion ad un altro, dal rimorchio vuoto; siamo quindi saliti nel vuoto per fare peso e favorire l’opera. Il tutto in modo colorato, musicisti e giovani, meno giovani, tutti saltando nel camion per far peso, la macchina che sbuffa, odore tipico di plastica bruciata. Tutti gli attori uniti da un sorriso sincero per la gioia di condividere quel momento. Strette di mano e applausi a risultato raggiunto.Una scena assurda, forse per questo così meravigliosa. Scene da un altro mondo, un mondo che mi piace.
La notte è proseguita in spiaggia insieme agli artigiani e a Lisy. Chitarra, ron, fumo, luna e stelle. Musica cantata al lago sacro, dedicata a persone magiche. Dormo in spiaggia con Lisy, cullati dal suono delle onde, avvicinati a turno da galli e galline, cavalli bianchi, maiali e cani.
Che bell’intorno.
Il giorno successivo passiamo la giornata con i cantanti attraversando l’isola in un bus che alza una gran polvere affrontando la strada sterrata: dentro è festa, si suona la chitarra, si canta, si chiacchiera e ci si conosce. Chi ne ha bisogno si riprende dall’eccessiva bevuta della notte appena trascorsa, la maggioranza ridono felici. Mi bagno con due amiche nica che sfidano il mio autocontrollo bagnandosi come mamma le ha fatte, ma alla fine colgo l’innocenza di fondo. E’ semplicemente voglia di eliminare le barriere tra corpo e lago, per riprendersi la naturale umanità. Come dargli torto.
La fortuna ci permette di viaggiare gratuitamente fino a Managua, in un minibus organizzato per riportare a casa gli artisti, così il viaggio attraversa il centro di questo paese lindo, offrendo panorami sempre da brividi ed uno dei più bei tramonti che ricordi. C’è stato un momento nel bus in cui è calato il silenzio; alla nostra sinistra il sole scendeva sempre più arancione tra un’immensa valle di montagne e colline, verdi e già giallo paglierino per la siccità. Un panorama di valle di cui non si poteva immaginare la fine, ma che si finisce, nel Pacifico, qualche centinaio di chilometri più a ovest. Un panorama che secca la gola.

Giornate rigeneranti, sensazioni di purezza
del sentire Bene.


grazie Ometepe grazie volti grazie corpi grazie Nicaragua

sabato 10 febbraio 2007

Oaxaca

Quante giornate senza scrivere, senza scrivervi. Sarà l’abitudine all’intorno che mi farà apprezzare meno le piccole cose? Fortunatamente no. Sto francamente lavorando molto, il desiderio di dedicare ulteriori energie a relazionarmi ad uno schermo è quindi minimo.
Questo non significa che le settimane trascorse non siano state intense, riempite da persone, attività, gioie e dolori, relazioni sorprendenti, e da una consapevolezza centroamericana che ogni giorno di più cresce dentro di me.
Queste quaranta milioni di persone che riempiono la terra che va da Guatemala a Panama, passando per Belize, Honduras, Salvador, Costa Rica e Nicaragua. Questi popoli, fratelli nelle loro diversità, che sempre meno interessano alla cultura di massa e agli organismi internazionali. Queste tante etnie, miscugli, unicità organiche.
Oggi sono stati uccisi tre deputati salvadoregni del parlamento centroamericano. Quotidianamente persone fanno barricate in alcuni paesi di Nicaragua perché, come spesso, l’acqua non arriva, perché l’elettricità non c’è. Oggi, come sempre, le signore preparano il gallo pinto e puliscono per bene il patio di fronte a casa. Oggi sono pensieroso, stanco di confrontarmi con dinamiche a spirale. C’è chi dice..

…una spirale a girare,
tra il mio senso di colpa universale
e tu che mi confondi
le idee che voglio chiare
ora, lascia andarmi fuori,
lascio tutto fuori,
la tranquillità dei ruoli, la via lattea degli errori…

La consapevolezza centroamericana di cui parlo è fatta di persone, di letture, di pianti, di cuori, di coscienza che aumenta ad ogni nuova chiacchiera, faccio mie perplessità, paure e disillusioni, faccio mie le speranze e la voglia di cambiare..

..se non combatto
sarei venuto qui per niente
se perdo
perdo per me stesso
perdo per la voglia
di fuggire via da ogni posto..

Il mio approccio diplomatico e non violento ben complementa l’effervescenza latina, la lucha che qui spesso assume forme ben lontane dalla via gandhiana all’indipendenza, alla verità e all’autocoscienza. Ma questo è il tipo di contributo che posso dare. Ascolto racconti che mi fanno rabbrividire, non si tratta di libri, né di documentari. Si tratta di persone che conosco, di amici, fratelli, perseguiti ingiustamente.
Abbiamo ospitato per un paio di settimane un amico di Oaxaca, un avvocato attivista per i diritti umani. Sorelle, fratelli, la violenza endemica presente nella gestione delle questioni indigene in Messico è sconvolgente, e quindi coinvolgente. Questo uomo è stato rapito, picchiato senza nessuna imputazione, se non quella di essere parte di una organizzazione per i diritti umani delle popolazioni indigene. I racconti degli abusi sulle donne, i bambini picchiati, di tutto ciò non si parla. Né qui, tanto meno lì. Ma i canali per informarsi ci sono, impossibile restare indifferenti. Ipocrita.
Questi fatti non sono ricordi, sono la quotidianità di troppe persone, nella contingenza parliamo di Oaxaca, come può essere la realtà di Guatemala e Salvador. Qui no, Managua, Nicaragua. Qui tutto è pace apparente, troppi anni di guerra hanno divorato le anime delle persone, ormai stanche, desiderose di tranquillità.
La partecipazione all’attività in sostegno al movimento APO di Oaxaca che è stata organizzata dal Movimento Sociale è stata debole. Ascoltare i racconti delle violenze è stato forte. Presentare un documento di protesta all’ambasciatore messicano in Nicaragua reale, effettivo.
L’amico messicano lascia la mia casa, prosegue nel suo viaggio in centroamerica per sensibilizzare le persone a ciò che sta succedendo ad Oaxaca.

Chissà se lo rivedrò,
una volta rimetterà piede in Messico c’è un mandato d’arresto contro di lui.

Suerte hermano

lunedì 8 gennaio 2007

Luna di giorno


San Stefano segna la partenza per la costa atlantica di Nicaragua, non prima d’aver passato la mattinata scoprendo il mercato di Masaya, uno tra i più famosi del paese, che a parte la grande area dedicata all’artigianato, ne ha una enorme riempita da venditori di qualsiasi tipo di cibaria. Non avevo mai visto tante qualità di riso e fagioli, quante verdure e quanta carne. Il miscuglio di questi odori a tratti è idilliaco, in alcuni momenti (nelle vicinanze della carne soprattutto) pestilenziale.
Il pomeriggio andiamo da Eduardo, cileno, che con altri amici cileni e nicaraguensi, viaggerà con noi per una settimana.
Raggiungere la costa atlantica, non è immediato tanto da indurre i più ad una comoda avioneta che in un’ora ti porta a Bluefields, capitale della regione autonoma dell’Atlantico del Sud, dove la maggioranza della popolazione è d’origine africana, si parla un creolo mischiato all’inglese ed il ballo è essenza delle persone e del circostante.
C’è un altro modo per raggiungere la costa: certamente più dinamico, interessante, fonte di incontri e parole. Partiamo a tarda sera con un bus borghese che da Managua ci porta verso l’Est, fino a Rama, dove le strade di questo paese finiscono e la natura ha il sopravvento. Ci si inizia a muovere in barche di diverse dimensioni, velocità e livelli di sicurezza e comodità, non prima d’aver aspettato qualche ora al freddo impalati davanti ad una tv insieme al pueblo guardando una trasmissione sullo stile “carramba che sorpresa”. Si inizia con una lancha che è una barchetta di legno a cui aggiungono un motore potente che instabile e rapida taglia il fiume Rama per raggiungere Bluefields. Non posso che passare le due ore di viaggio recitando un “Hare Rama Hare Rama” e osservando la bellezza della natura in sé, il fiume è circondato da verde a perdita d’occhio. L’uomo è arrivato con delle capanne, una ogni po’ di chilometri, che però non intaccano il tutto, sembrano immagini di un altro tempo, davvero. In ognuna c’è una famiglia con tanti bimbi che giocano felici, disegni sovrapposti alla totalità del verde che sta alle loro spalle..
Avevo sentito parlare un sacco di Bluefields, e non so su che basi me l’ero immaginata come una città grande e pericolosa (questo per diversi racconti che m’avevano eccessivamente influenzato). Sicuramente è un altro paese dentro questo paese: non solo la lingua e il colore della gente, ma la cultura stessa, le tradizioni ad essa legata.
La città è piccina, calma, lenta. La differenza evidente che mi riempie di gioia è la musica reggae che esce da ogni abitazione, l’accoglienza sorridente di una “big mama” venditrice di strada ed una atmosfera che mi abituerò a respirare nei dieci giorni successivi.
Le condizioni del mare non ci permettono di raggiungere la nostra meta iniziale: Corn Island, un isolotto perso sull’atlantico che si raggiunge via mare, ma questo ci darà l’opportunità di passare due bellissime giornate nella capitale. Passeggiando conosciamo una ragazza che ci invita tutti e otto a casa sua e cosi passiamo qualche ora piena di buon umore e poi, con la cugina, prendiamo una lancha verso un’isoletta li vicino, accompagnati dal canto di un pescatore rasta rivolto al mare che diceva “si se puede, si se puede”, in senso di rispettoso confronto con lo stesso. El Bluff, piena di musica, bimbi e una spiaggia raggiungibile solo passeggiando per una decina di minuti attraverso non invitanti scogli, piena di marinai che aspettano il tempo di salpare giocando a carte in barca, di ragazzini lavoratori. La ragazza ci farà conoscere un paio di luoghi del ballo, dove si va avanti fino allo sfinimento con reggae, soca, palo de mayo, reggaeton e un po’ di salsa e merengue. Siamo stati pure alla Laguna de Perlas, posto bellissimo con una forte divisione tra la componente creola ricca e la parte indigena Mizquita povera, con un ragazzo che ci spiegava come gli aiuti del governo vanno tutti alla parte creola e questo non permetta all’indigena di acquisire fondi da utilizzare per costruire case ed educare i ragazzi secondo le loro tradizioni. Qui tutti prendono la canoa, fanno cinquanta metri, gettano la rete e poco dopo tornano con il pesce, lo cucinano e lo mangiano: la catena alimentare si sviluppa come un tempo. Si caccia e si mangia, ma non gli uccelli perché, dice, li aiutano a tenere pulita la spiaggia. Gente semplice, con tanta storia, senso d’appartenenza ed identità, che si confronta con poco rispetto e considerazione da parte dei vari governi.
Il giorno successivo la ragazza ci ospiterà da lei, in otto, facendo in modo che ci stessimo tutti, spostando il poco mobilio della modesta casa della madre, “perché non aveva senso che spendessimo dei soldi in un ostello quando ci sono le persone che ci possono ospitare”. Questa ragazza, che non ci conosceva, ci ha ospitato, perché tutto ciò è naturale; questo è il mondo che sono abituato a vivere. L’idea della convivialità, della condivisione di momenti e spazi, di fiducia a priori verso l’altro, il concetto di comunità che faccio tanta fatica a trovare in altri luoghi. Il tutto condito da un sorriso ed un buon umore costante, da musica ron e vomito, che ha portato due di noi all’ospedale –intossicazione alimentare- ma che non ha intaccato il buon umore. Insomma le due giornate a Bluefields sono state un perfetto antipasto alla settimana passata tra le due isole di Corn Island, la grande e la piccola. La prima, raggiunta attraverso il “barco de la muerte,” così abbiamo soprannominato un ex peschereccio che fa la spola tra quest’isola e la costa. Il fatto è che qui parliamo di Oceano Atlantico, e le maiuscole sono dovute: onde alte metri che “El Rio Escondido”, nome della barca, affrontava con coraggio ma con tanta fatica. Il viaggio d’andata, anche a causa dei residui da intossicazione, è stato così condito da mal di mare e vomito in quantità, ma già al ritorno lo scenario è stato diverso. Ho passato le cinque, sei ore del viaggio osservando l’Oceano. Al largo l’acqua è talmente limpida e pulita, è verde! Sapete quel colore “verde mare”, quella matita che si usa poco, di cui ogni tanto ci si chiede ma che rappresenta.. ecco il verde mare è il colore dell’oceano al largo. Talmente pulito e talmente maestoso, talmente affascinante che la tentazione di buttarcisi dentro è stata ben forte.
Le giornate nelle due isole sono state rilassanti, iniziavano presto e terminavano al calar del sole, simili e così diverse. La Grande possiede già strade e servizi. La Piccola non posso dire sia ancora selvaggia, ma veramente poco ci manca. Se è vero che negli ultimi dieci anni diversi ostelli hanno aperto questi sono su un lato dell’isola; nell’altro ci sono solo alcune cabanas - tende di bambù - e niente più, non c’è luce, né acqua. Si raggiunge attraverso un sentiero, prima attraverso il villaggio dove l’odore di pan di cannella e cocco accompagna il passeggiare, e poi perso tra foreste di palme e banani, fino a che l’oceano si apre immenso davanti ai tuoi occhi. Abbiamo accampato qualche giorno, cibandoci di quel buonissimo pane di qui sopra e di qualche cocco che ho aperto con grande fatica, avendo genialmente dimenticato il coltellino a Managua, e altrettanta soddisfazione. Il latte di cocco, il latte di cocco!! Buono, sano, bello. La noche vieja, per quanto il concetto di tempo in un’isola non riempie di significato questa serata, è stata originale. Passeggiavamo in questa spiaggia da cartolina, con le palme che davano sulla sabbia bianca e poi l’oceano pieno di coralli, pensando che già così sarebbe stato geniale quando un locale alto grosso e bruttissimo ci invita ad un tavolo insieme ad alcune altre persone. Ci spiega come loro stiano già festeggiando da mezzogiorno e continueranno fino all’indomani. Che gioia penso, essere chiamato dalla spiaggia per partecipare alla festa di locali. E così è stato; non bastasse, avevano cucinato offrendoci una zuppa buonissima e tanti beveraggi. Avevano pure la musica così che s’è ballato un sacco, s’è chiacchierato con un guerrigliero della rivoluzione che da anni vive di espedienti (ed ogni giorno che passa ne incontro sempre più, da quelli che vivono per strada, a chi fa lo scarparo). Poi sono arrivate le bottiglie di spumante e quindi mezzanotte, ma chiedendone conferma ho ricevuto un bonario..”man it’s just 8pm”, è che il sole nell’isola tramonta verso le cinque, e non vi dico che tramonti. Così le otto di sera sono già percepite come notte fonda. Credo la festa sia terminata prima di mezzanotte, non ne sono sicuro, anzi non ne ho proprio idea, ma che importa. Ad un tratto mentre ballavo in riva all’oceano illuminato a giorno da una luna quasi piena, con Chiara che giocava alle palline vicino a me, mi sono girato e non c’era più nessuno.

Attimi perfetti,
completati da parole importanti dedicate.
Tempo d’andare dunque,
buonanotte,
a presto fratelli.