martedì 1 agosto 2006

Connessioni

tempo scorre rapido tra queste terre fertili.Un'altra settimana è passata, e tra qualche giorno sarà già un mese di vita nella terra di Sandino. La scorsa domenica sono stato con Gaia in giro per il Sud. Pick up e tanta allegria. Lei è un’italiana di trent’anni che ha lavorato qui un anno e mezzo ad un progetto per la ricostruzione di case nella zona colpita dall’uragano Mitch. Lunedì è dovuta tornare in Italia vista la fine del contratto..la precarietà! come descrivere i suoi occhi nell’ultimo giorno trascorso qui. Persone, paesaggi, calore che, forse, non vedrà né sentirà più. Certo ce ne saranno altri, certo. Siamo stati a Granada, cittadina molto pulita e piena di giovani gringo che vengono a studiare spagnolo. Granada è piazze, edifici bianchi e arancioni, è Messico, è manghi. Da sul Lago Nicaragua, il più grande del centroamerica. Qui un giorno prenderò il battello che mi porterà tra le isole magnifiche che caratterizzano questo lago. Di ritorno ci siamo fermati a Masaya, che prende il nome dal vulcano che la circonda. Sotto Masaya c’è una laguna chiamata d’Apoyo. Immaginatevi la vista: tutto è verde perché è stagione di piogge, alzate gli occhi e c’è un enorme vulcano, abbassateli un pò, piano piano, godendovi il verde; improvvisamente è acqua, una distesa senza fine. Vulcano, bosco e laguna. A Masaya c’è pure un mercato famoso per le amache, tutte intrecciate pazientemente a mano, coloratissime. Perdersi tra i mercati, che gioia. Chiudere gli occhi e lasciarsi avvolgere dai suoni, le signore che vendono cibo, gli uomini che cambiano dollari, le venditrici di artesania. Chiudere gli occhi e respirare i sapori. Aprire gli occhi e godersi i volti, i bimbi, gli storpi, i colori accesi.Gaia va, abbracci, sincero affetto. Piccoli consigli per il ritorno in Babilonia.Anche questa settimana la Cinemateca ha offerto un programma piacevole: sei giorni dedicati alla proiezione di film cileni. Il martedì, alla prima, giungo con Elena e scopro che l’entrata è ad invito. Poco male, come chele (bianco) ci sono dei benefici (e non vi dico i fastidi etici nell’usufruirne) e così mi godo la pellicola tra inni nazionali, ambasciatori, bicchieri di vino cileno e discussioni sul cinema cubano. Marcio, il direttore ventottenne della cinemateca ha studiato regia a Cuba, chiacchierare con lui è sempre piacevole. Mi ha raccontato che il giorno in cui dovevano proiettare il documentario su Fidel, in realtà non era saltata la luce, ma avevano rubato il proiettore! La sua frustrazione nel raccontarlo era tanta, e lo posso ben capire. E’ una delle persone che si sbatte per creare e offrire cultura, e qui comprare un proiettore non è esattamente alla portata di tutti. Era pure arrabbiato perché dice come la polizia in realtà non stia investigando, come creda ci siano intrecci loschi. C’erano poi un numero di ragazzine già donne, certamente non timide nell’approcciarsi. Direi che la riservatezza incontrata in India, in Centroamerica si concentra in Guatemala, dove sì la componente indigena ha un approccio alla sessualità molto intimo. Qui no, ma le giovini cadono male con me, non è proprio area. Certo però si imparano le dinamiche di relazione, l’osservazione partecipata trionfa. La serata è proseguita in chiacchiere. Ho conosciuto Natalie, nica ventottenne, appassionata d’India; lavora in una clinica a Matagalpa, al Nord. Persona interessante, con due gemelline. Femminista, attivista, una buona compagna per quando visiterò la città.E questa settimana è coincisa, finalmente, con la prima visita al campo. Mi ha fatto proprio bene, lascio a voi immaginare come mi sento rinchiuso in ufficio tutto il giorno. Certo inondo la sede di ACRA di reggae e musica in genere, ma ho bisogno di persone, di stringere mani e incrociare gli sguardi di chi realmente è protagonista di questo mondo che si chiama CentroAmerica. E allora vado nel distretto VI, il più grande di Managua, con due rappresentanti del dipartimento ambiente dell’Alcaldia. Sorridono sempre, scherzano, sono belli da vedere. Ascolto con attenzione cosa mi dicono per poi riproporre le stesse domande ai lavoratori delle microimprese che raccolgono l’immondizia e la riciclano. Per una volta, la differenza tra quello che l’Alcaldia racconta e la verità non è poi così enorme; normale che per ricevere maggiori fondi l’Alcaldia si inventi il paradiso. Ogni microimpresa ha una giunta direttiva. Quella che visito è in area sandinista. Le persone con cui discuto, una donna ed un uomo, mi danno il benvenuto nelle loro baracche; mi parlano della mancanza di mezzi, di come le biciclette si rompano sempre. Ma sono attivi, si arrangiano, sono creativi, soprattutto credono in quello che stanno facendo. Soluzioni fantasiose ma efficaci. La donna porta degli occhiali, una lente rotta. Vengo risucchiato dall’intensità del suo sguardo, attraverso quella lente, direttamente dentro di lei. Viaggio rapido tra visioni di umiliazioni, di sofferenze, di orgoglio comunque intaccato. Credo che così tanta energia non m’attraversasse da tempo, da una notte di un tempo non lontano, tra sabbia, vento ed anime. Tutto è terra, fango, sporcizia, puzza. E gli uomini sorridono. I lavoratori, giovanissimi, girano per le zone loro assegnate con dei tricicli (biciclette a tre ruote con un grande cesto davanti dove raccolgono i rifiuti). Sono neri, di pelle, di fango e di polvere. Denti gialli che traspaiono dall’immancabile risata, a volte deviata dalla colla che tirano. I bambini. Questi giorni sono segnati anche dal pensiero al Libano, alla mattanza portata avanti tra la semi-indifferenza generale da Israele. Oggi marciamo sulla sede dell’ONU. I bambini! I bambini! “Il giornale” di oggi titolava “Gli Hezbollah fanno uccidere 37 bambini”, certa gente è senza vergogna. Come si fa ad abbattere un edificio pieno di bimbi? Ma più continuano più il loro karma scende, pagheranno tutto.Questa è stata anche la settimana in cui ho trovato casa. Nelle prossime settimane si libera un posto in una casa gialla, nella CentroAmerica, proprio l’area in cui vi dicevo mi sarebbe piaciuto stare. Vivrò con Roberto, un nica di ventotto anni già professore di informatica all’Università, e Lisy, belga qui per un anno come volontaria in una associazione che lavora con i bambini di strada. La casa è tipicamente nica, uno spazio unico in cui poi hanno ricavato delle stanze. La mia sarebbe la più grande, ma quello che importa sono i patii, il verde, il fatto che sia tutta dipinta di giallo, a cui aggiungerò solo dell’arancione per unire in colore la sacralità del bene. Si chiacchiera tra amici al ritmo lento della sedia a dondolo, accompagnati da musica rivoluzionaria nica e reggae (per mia fortuna anche Lisy è appassionata). Ci si saluta tra vicini, ci si muove a piedi, ci sono i ragazzi che graffitano i muri. Sono ad una quadra dalla casa di Elena, Leo e l’artista Emilio. E poi che bellezza ricevere come saluto “hola mi amor” dall’enorme signora della pulperia. Una volta trasferito sarò a mezzora a piedi dal lavoro, ma vista la pesantezza dei pasti non può che essere un bene per l’equilibrio biologico del mio corpo.Non sono poi riuscito a resistere e ieri sono tornato vicino Masaya, questa volta proprio alla laguna d’Apoyo. Un incanto, quel tipo d’incanto magico, che scuote, dà la pelle d’oca e inebetisce l’espressione del viso. Quell’incanto che conosco bene. Vista dall’alto già era bellissima, ma dal basso, da dentro, è semplicemente, meravigliosamente, sconcertante. Per raggiungerla ho fatto autostop con Lisy, due famiglie sorridenti ci hanno caricato nel retro dei loro pick up e via, vento in faccia come canta la banda bardò. Avevo intuito la bellezza del paesaggio già durante il viaggio, ma una volta scesi, salutati affettuosamente i benefattori, sono stato completamente circondato dal verde della boscaglia tropicale. Alberi d’un paio di metri di diametro, alti non so quanto, vegetazione varia e diversa, sole che batte e ombra che rigenera. La laguna, dall’acqua ancora miracolosamente vergine all’inquinamento, contiene numerose specie di pesci che si trovano solo qui, non in CentroAmerica, ma proprio solo qui. Ho mangiato manghi e pitaya, un frutto viola che sembra un carciofo ma è una manna dal cielo. Bagnarsi tra queste acque un onore, oltre che un rinfrescante piacere. Leggo della rivoluzione sandinista, chiacchiero con Lisy, vivo l’ennesima connessione con una persona a cui voglio bene, questa volta nella forma della tradizione afrocaraibica. Ormai da tempo ho smesso di domandarmi perché, accetto quello che accade, consapevole che un percorso è disegnato e io posso solo giocare di neretto. Raccolgo e regalo fiori viola alle signore che, dopo un po’ d’imbarazzo, mi sorridono felici, a differenza dei loro uomini che mi guardano piuttosto storto. Ma nessun machete compare, tutto è bene.

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